XXXIII.

Letteratura e cultura del Romanticismo

Pure con le sue carenze soprattutto di filosofia e di linguaggio, il Romanticismo si manifesta in tutti gli aspetti della vita culturale e letteraria italiana di alcuni decenni dell’800. Fenomeno culturale in svolgimento, mai uguale alle proprie mosse iniziali, sostanzialmente voglioso di mutamenti continui, con un fondo di insoddisfazione specie per i contatti con il contemporaneo movimento europeo della cultura e della letteratura, scandito sui rivolgimenti, cauti magari ma continui, della società che lo esprime, non è difficile riconoscerlo sotto le forme piú varie, attraverso i mutamenti piú radicali, attraverso anche le molteplici esigenze che viene scoprendo e segnalando.

A pochi anni di distanza le esigenze manifestate dalle polemiche suscitate nel 1816 erano largamente penetrate nel pubblico degli scrittori e dei lettori stessi, avevano creato una letteratura, avevano determinato un avanzamento della condizione generale della cultura. Malgrado tutto ciò, certo è però che un’inquietudine di fondo resta la nota caratteristica di tutto lo svolgimento romantico: ed è la denuncia piú avvertita di un contatto con l’Europa sentito sempre deficitario. Accade cosí che il Romanticismo può apparire internamente diviso; non solo tra una tendenza spiritualistica e una contraria laica, ma anche tra un’istanza di realismo, che matura l’esigenza primordiale del Romanticismo di una letteratura prodotta per un diverso pubblico e capace di offrire un agio maggiore, e un’istanza di liberazione fantastica che, se non raggiunge in Italia le dimensioni che ha in tanta letteratura romantica europea, tuttavia non sarà assente e anzi si proporrà ad un certo punto dello svolgimento romantico in Italia come un elemento rinnovatore, di distacco non solo da una tradizione piú antica e generale, ma anche dalla tradizione romantica italiana, sentita come troppo cauta, troppo legata al passato, troppo compromessa con il Settecento illuministico e razionalistico, troppo desiderosa, almeno, di aggancio alla realtà e di buon senso.

Fra queste due istanze estreme, ma mai tali da non presentare molteplici punti di contatto, trovano posto altri atteggiamenti e altre esigenze; umorismo, satira, bisogno di una letteratura di evasione, presenza al contrario di un’esigenza di documentazione e testimonianza sociale, piú pamphlettistica che letteraria, di denuncia di condizioni sociali arretrate, gusto, ancora, per un impetuoso slancio drammatico, per una letteratura fortemente scandita nel ritmo della grande avventura politica, ma anche umana che è il Risorgimento nazionale.

In tutto questo articolato panorama pensare di poter rintracciare una compatta poetica romantica è utopistico: ma la condizione di fondo da cui emergono le varie tendenze, istanze, bisogni resta abbastanza comune. Al di là della varietà delle esigenze romantiche, culturalmente poi il Romanticismo italiano viene grado grado penetrato da un’urgenza di pensiero, da un bisogno di chiarimento filosofico che accolga meglio, piú a fondo, e faccia fruttificare l’insegnamento dell’idealismo tedesco. Cosí due obbiettivi culturali sono costantemente perseguiti dalla cultura romantica e daranno il loro piú lucido risultato nella critica letteraria: la ricerca dell’autonomia dell’arte (pure con tutto il quadro di istanze sociali, politiche, ideologiche, che stanno dietro a questa ricerca) e l’approfondimento della nozione della storia.

1. Carlo Porta

Una considerazione positiva del dialetto come strumento di espressione letteraria era implicita alla ricerca di libertà espressiva del Romanticismo: del resto in difesa del dialetto, almeno come strumento di diffusione di cultura tra il popolo, avevano parlato i primi romantici italiani, come il Borsieri che nelle Avventure letterarie di un giorno ne stigmatizzava l’utilità per il popolo contro la severa condanna del Giordani. A Milano poi aveva avuto luogo una rigogliosa letteratura in dialetto fin dalla fine del Seicento, e se n’erano serviti molti scrittori da Carlo Maria Maggi al Parini stesso, costituendo una vera e propria tradizione letteraria. Nessun miglior mezzo, in sostanza, per manifestare l’istanza realistica del Romanticismo che il dialetto.

Ce lo prova immediatamente la poesia di Carlo Porta, milanese, interprete fedele della Milano dei suoi tempi, poeta di una singolare ricchezza di sfumature, di un’autentica profondità nello studiare l’animo dei suoi popolani, dei suoi frati, dei suoi nobili. Il Porta visse a Milano tutta la sua breve vita: nato nel 1775, morí nel 1821; per vent’anni fu impiegato del debito pubblico, prima sotto il governo napoleonico della Repubblica cisalpina e del Regno d’Italia, poi sotto il governo austriaco del Regno lombardo-veneto. Quel suo impiego, che comportava un contatto continuo con gli strati piú umili della popolazione milanese, usato come angolo visuale sul mondo milanese in tutta la sua varietà, gli fruttò come una straordinaria miniera. La sua poesia mosse da un’istintiva carica di realismo, dal bisogno di rappresentare quel mondo che aveva dinanzi, di penetrarlo, di comprenderlo: lo strumento per descriverlo non poté essere per lui altro che il dialetto parlato dalle figure che diventano i suoi personaggi.

Nel seguito il Porta prese posizione in favore del Romanticismo: ne è documento una sua poesia, El Romanticismo, che è una bonaria satira dell’affettazione classicistica che corrisponde pienamente all’affettazione mondana di una dama milanese che si picca di cultura. Non si può, forse, contare questa tra le sue composizioni maggiori: ma, a parte l’importanza che ha per le dichiarazioni esplicite di poetica che contiene, per il fatto cioè che è una presa di coscienza da parte del poeta istintivo dei problemi culturali che il suo esercizio poetico comporta, essa apparirà tanto piú valida quanto piú la si sottrarrà all’orizzonte della satira e si vedrà in essa la rappresentazione della fatuità di una dama, che comporta quella della vanità di tutto un atteggiamento culturale.

S’è portato cosí l’accento su quello che è l’aspetto piú rilevante e incisivo dell’opera portiana: che non è quello satirico, non cioè l’intento di fare la caricatura di personaggi presi dal vivo della società. Al contrario la poesia portiana è una poesia seria, che, se fa aprire talvolta le labbra al sorriso, è perché il comico è naturalmente nelle cose insieme al dolente, al malinconico, al patetico, al tragico. È dalla volontà di rappresentare questo mondo e questi modi di essere, in tutta la loro evidenza, senza circonfonderli di sentimentalismo, senza indugiare nelle descrizioni, ma con una sobrietà per cui ogni pennellata è insieme disegno e colore, che muove la poesia portiana: che solo tardi, a cose fatte per la maggior parte, si riconosce nella sua portata innovatrice, in cui il Romanticismo non significa mai quegli oggetti che infoltirono le poetiche romantiche piú esplicite (dimensione spirituale dell’uomo, religiosità, e da questa prospettiva lotta contro il neoclassicismo), ma significa soprattutto contatto con la realtà, presa di coscienza compiuta su di questa e per questa.

Nella rappresentazione portiana del mondo milanese si possono riconoscere tre direttive principali relativamente al contenuto, tenendo però ferma l’avvertenza che l’intento del Porta non è mai di condanna moralistica e neppure sociale, ch’egli non intende mai far la caricatura dei suoi personaggi, ma solo intende rappresentarli, mostrarli nei loro segreti, nelle pieghe piú interne della loro mentalità, dei loro caratteri, delle loro miserie umane, delle loro debolezze. E prima di tutto ci si parano dinanzi le grandi creature popolari di alcune composizioni che sono veri e propri poemetti: la Ninetta del Verzee, la piú forte, anche per il linguaggio piú scoperto, piú osceno, piú sboccato, delle rappresentazioni portiane, il Marchionn di gamb avert, che, se meno forte nel disegno, è tuttavia un’efficacissima rappresentazione di un popolano ingenuo, tradito e beffato, il Giovannin Bongee.

La Ninetta è una povera prostituta che racconta la sua storia di ragazza fatta perversa dalla malvagità altrui, prendendo della prostituta i modi, il linguaggio, anche se nel fondo del suo animo gorgoglia tutta l’umana passione di una creatura tradita; Marchionn è il marito che esprime il suo Lament (è il titolo della composizione) sui tradimenti della moglie, ma questo non può fare che narrando la sua storia di sposo felice, che all’improvviso scopre la vera situazione in cui si trova e se ne lamenta descrivendo, con la propria storia, l’ambiente umile ed equivoco in cui è maturata; Giovannin Bongee infine è un popolano fatto oggetto di beffa dalla prepotenza degli occupanti francesi. Soprattutto in queste Desgrazi il Porta raggiunge una forza di rappresentazione di una condizione umana e di una situazione storica di rara potenza: ogni strofe è qui un quadro, sia che il poeta descriva un angolo qualsiasi della Milano che fa da sfondo alle vicende del suo personaggio, sia che delinei i sentimenti di ribellione sempre conculcata che sono connaturati al personaggio.

Un’altra solida linea della rappresentazione milanese del Porta è quella che riguarda i preti e i frati, con le loro miserie, con la loro incertezza, la loro avidità, sbalestrati dalle disposizioni di soppressione di ordini e di rendite promulgate dal regime napoleonico, in composizioni come Fraa Zenever, Fraa Diodatt, in cui il vero tono caricaturale ha tuttavia una sua vigorosa e concreta manifestazione, come El viagg de Fraa Condutt, dove non è solo Milano a comparire, ma la campagna lombarda, i suoi contadini, i suoi paesaggi.

Terza, e non meno vigorosa, rappresentazione è quella dei nobili, chiusi nei loro palazzi assediati da una nuova situazione storica che s’impone e chiusi soprattutto nei loro pregiudizi: tutto ciò prende spazio in composizioni come La nomina del cappellan, La preghiera, Ona vision, Meneghin biroeu di ex-monegh, La guerra di pret.

Poeta popolare Carlo Porta è non perché si serve del dialetto, in tutte le multiformi disposizioni ch’esso può avere, ma perché esso diviene strumento indispensabile di una rappresentazione popolare di tutto il mondo milanese. Solo le grosse scosse che imprimono una diversa direzione alla cultura possono spiegare questo singolare caso di grande poesia che il Porta rappresenta. Realista prima che romantico, ereditando sia pure gli esiti di una particolare linea della letteratura milanese, il Porta è un grande poeta il cui pieno significato si può comprendere, e prendere risalto, in una prospettiva moderna della letteratura, nell’incontro con alcune delle fondamentali istanze romantiche (delineazione psicologica, aspirazione ad un linguaggio preciso, storico, concreto) e soprattutto con quella generale di un’ispirazione maturata dal rapporto diretto con la realtà.

2. Giuseppe Gioacchino Belli

La spinta poetica che animava il Porta nasceva da un bisogno di rappresentazione che era prima di tutto commossa, partecipata adesione ad una realtà, quella del popolo milanese, anzi quella della Milano in tutte le sue classi, e condizioni, e vie, e luoghi. Dalla lezione portiana prese le mosse la poesia dialettale romanesca di Giuseppe Gioacchino Belli: il quale, volendo scegliere il dialetto come suo ulteriore, non unico, mezzo di espressione, si mise alla scuola del Porta come a quella di un maestro. Ma i risultati, pur altrettanto grandi, furono molto diversi: e non solo perché il romanesco del Belli è strumento tanto diverso dal milanese del Porta, ma prima di tutto perché diverso è l’atteggiamento del Belli di fronte al popolo romano che intende rappresentare. Infatti egli intende riprodurre, con fedeltà fotografica per cosí dire, la realtà di quel popolo, fermarlo nella sua condizione storica, nel suo linguaggio, nelle sue manifestazioni, nelle sue riflessioni: un compito di documentarista è quello, dunque, che precipuamente s’impone il Belli. È vero ch’egli dice che quel popolo è lasciato in una condizione incredibile di abbandono, ma quello che piú gli sta a cuore è erigerne il «monumento», nel senso latino della parola, cioè fornire il documento per la ricostruzione di ciò che esso fu e che non sarà piú, poiché, malgrado tutto, la realtà cambia con la storia. Il Belli fu grande poeta soprattutto, anzi solamente, per oltre 2000 sonetti nei quali fece argomento della sua poesia il popolo romano. Per la verità produsse anche moltissimi versi in lingua, lasciò infinito numero di appunti, come in dialetto, anche in lingua: e sono materiali che, con l’Epistolario e il Diario, meglio suggeriscono la complessità in cui egli si trova. Qualcosa di torbido, di incerto, di indeciso e insieme di rabbioso v’era in lui: ed è quello che lo fa uomo moderno, al di là addirittura del Romanticismo, dal cui tessuto invece nasce quella sua decisione del «monumento».

Diciamo questo circa la complessità della posizione storica del Belli perché in lui vissero ideologicamente due uomini e quindi due poeti: il ligio impiegato del governo pontificio, che, accolto nelle accademie tradizionali, scrisse composizioni di carattere ufficiale, accademico, tutte esteriormente occasionali, in lingua, secondo le esigenze della persistente tradizione arcadica; e l’osservatore della vita romana che assume la prospettiva del popolano romano per vivere la giornata intera della sua città, lo sfarzo cadaverico delle cerimonie religiose, la falsa bonarietà dei governanti, la vacuità del mondo prelatizio, la stentata vita del popolano, tra la miseria, le prepotenze degli sbirri, la coartata rivolta istintiva, le scene ora ridicole, ora orribili fino all’orripilante, i litigi, i diverbi, fino alle meditazioni sulla vita, sull’ordine della società, sull’aspettativa dell’oltretomba.

È in questo secondo ramo della vasta produzione belliana che vien fuori il poeta. Quell’occhio fermo a guardare, quell’orecchio inteso a sentire riescono ad una pittura che, se talvolta ha del bozzettistico, spessissimo riesce a quadri grandiosi, la cui efficacia è aumentata dalla misura breve del sonetto cui il poeta si costringe, anche in ciò fedele al suo essenziale principio di far parlare il popolo, che non è capace di lunghe e articolate meditazioni, ma tutto si affida ad un’impressione, ad un ritratto rapido ed essenziale, ad una contrapposizione elementare di atteggiamenti, di modi di apparire e di modi di essere. Si potrà anche per lui, come per il Porta, riconoscere che non v’è ricerca di effetto comico, ché, se questo scaturisce da un contesto, ciò non avviene per una deliberata ricerca, ma perché è nelle cose, come v’è il tragico, il malinconico, il patetico.

Un discorso a parte merita il suo uso linguistico: quasi privo di una tradizione di trascrizione dialettale, il Belli crea la sua lingua poetica dal nulla, con un’ostinazione, e una precisione fonetica prima di tutto, ma poi nel complesso un’alta forza espressiva, che da sole farebbero di lui un grande letterato. Egli si propone, come dichiara in una parte a ciò appositamente dedicata della sua introduzione ai sonetti, di non aggiungere nulla, nessun effetto letterario cioè, al parlato del popolano romano: e il suo massimo sforzo sta nel chiudere dentro al verso, alla strofe, al sonetto la parola romanesca cosí come il popolano la pronuncia, di ripeterne (non riprodurne) la sintassi elementare, la limitatezza del lessico, il rilievo espressivo della parola e dell’immagine.

Con queste premesse il quadro della Roma pontificia del suo tempo che risulta dai Sonetti è grandioso: sia ch’egli colga l’enorme ingiustizia consumata sulla pelle di un intero popolo da un governo che per principio nega la consistenza, l’importanza per gli uomini del mondo umano, sia ch’egli presenti l’artificio, il fasto vano delle cerimonie religiose e governative (Le cappelle papali), sia che si soffermi a guardare la folla plaudente al passaggio della carrozza del papa (E cciò li tistimoni), sia che dica la sofferenza, lo squallore, la miseria della donnetta che nulla ha da offrire ai figli infreddoliti e affamati se non l’attesa del marito (La famija poverella), sia che scenda ad una rappresentazione piú minuta del carattere manesco, prepotente e pronto ad ogni viltà del popolano romano (Ricciotto de la Ritonna), sia ancora che si sollevi a considerazioni piú generali, ma sempre popolari ed elementari, sulla vita che l’uomo attraversa come un chicco nel macinino del caffè verso il traguardo inalienabile della morte (Er caffettiere filosofo), sia infine che getti uno sguardo su ciò che aspetta l’uomo dopo la morte, una vertiginosa eternità di pene e di tormento (La morte co la coda), di cui l’immagine diretta del resto è nella vita terrena stessa.

Cosí il suo ritratto, o meglio, come s’è detto, messa in azione del mondo romano, si trasforma in un’implacabile accusa dell’ordine terreno: da una parte i potenti, i governanti, i grandi prelati, dall’altra il popolo abbandonato a se stesso, incolto, miserevole, affamato, sottoposto ad ogni prepotenza. Tanto che per due volte egli, fra molti tentennamenti, ripudiò i suoi Sonetti e si raccomandò infine che non fossero resi pubblici neppure dopo la sua morte: pregiudizi, timori, le incertezze e le cautele del pubblico ufficiale, del poeta ufficiale ebbero insomma il sopravvento sul poeta spregiudicato per gli stessi principi che lo avevano sostenuto e guidato nella sua opera. E la produzione romanesca del Belli venne conosciuta solo poco a poco, anche s’egli stesso rese pubblici alcuni dei suoi sonetti che ebbero presto fama e risonanza europea. Egli, nato nel 1791, li aveva scritti a cominciare dal 1818 e principalmente nel breve giro di anni compresi tra il ’30 e il ’39, con una ripresa tra il ’43 e il ’47. Morí nel 1863.

3. Giuseppe Giusti

La terza figura di poeta romantico che va qui ricostruita nelle sue linee centrali è quella di Giuseppe Giusti, molto esaltato dai suoi contemporanei, ma indubbiamente assai lontano per vivacità di fantasia, per gusto dell’osservazione realistica, per senso di umanità e capacità di raffigurare, per profondità di vita morale, dal Porta e dal Belli.

Il Giusti nacque a Monsummano nel 1809, studiò legge a Pisa, fu da subito vicino al movimento romantico; tra il ’47 e il ’49 prese parte alla vita pubblica, prima come maggiore nella guardia civica, poi come deputato all’assemblea legislativa toscana; dopo il ritorno del Granduca, malato di tisi, visse in solitudine e morí a Firenze nel 1850. Nel complesso una vita modesta, un poco scialba, che tuttavia egli seppe quotidianamente insaporire di osservazioni, considerazioni, meditazioni, tratte dalla vita reale, dalle occasioni storiche, dai suoi frequenti incontri con personaggi di rilievo. Come risulta da un suo libro di memorie, Cronaca dei fatti di Toscana (1845-1849), che fu lasciato incompiuto, il suo carattere era naturalmente disposto ad una satira bonaria fondata su una riflessione di portata modesta, ma non fastidiosa, anche per la misurata lingua toscana che egli vi adopera. E altre testimonianze sul suo carattere, sull’orizzonte della sua mente, si possono desumere dall’Epistolario, che appare tuttavia troppo spesso artificioso per un abuso di modi linguistici e per un gusto linguaiolo che anche affiora abbondantemente nella sua raccolta dei Proverbi toscani.

Ma la sua fama, come fu nel suo tempo, resta ancora legata alle sue Poesie, nelle quali vanno cercati anche i risultati poetici, per circoscritti che siano, di cui egli fu capace. Materia della sua satira è prima di tutto la Toscana granducale, gli impiegati governativi corrotti, gli sbirri, lo stesso Granduca bonaccione, ma pronto a minacciar cannonate: da questa matrice, dalla quale trae una sorta di sua interna misura, per mezzo della quale fissa un suo orizzonte di buon senso, di moderato sdegno, di denuncia di abnormità pubbliche e private, che sono sotto gli occhi di tutti, quella satira trapassa poi agevolmente ad una materia piú vasta; il costume europeo della Restaurazione, dominato dalla sicumera e dall’ipocrisia delle potenze della Santa Alleanza, quindi i tiranni grandi e i piccini, questi feroci e arrabbiati come i grandi e piú, poi i voltagabbana, gli arlecchini della politica, pronti a mutare secondo il mutare dei tempi, e ancora l’educazione contemporanea tutta calcolo e meccanica, la corruzione delle coscienze, fino agli aspetti velleitari o negativi dei liberali stessi.

Abbiamo cosí dato, piú che un repertorio dei temi giustiani, un piccolo indice di alcune sue composizioni, tra le piú riuscite: Gingillino, Il Re Travicello, Il Congresso dei birri, La ghigliottina a vapore, Il brindisi di Girella, Gl’immobili e i semoventi. Ma la ragione piú profonda della riuscita di poesie come queste citate sta nella felice scelta di un metro per esprimere un certo contenuto: il brevissimo verso di Girella dà alla poesia una sorta di movimento di danza, di girotondo che musicalmente, oltre che figurativamente, ottiene quel risultato di scherzo, di leggerezza che costituisce la forza vera della poesia; e cosí il verso del Re Travicello implica quel leggero dondolo, quell’equilibrio instabile del pezzo di legno, appunto, che galleggia; e la polimetria di Gingillino accompagna fedelmente la lezione di ipocrisia, di birbanteria e d’altro che il candidato all’impiego governativo riceve. Osservò giustamente il Flora che lo spunto comico della poesia giustiana non sta soltanto nell’argomento, ma anche nel verso e nel metro, cosicché, quando questo è trovato, la musicalità, l’andamento sciolto, liquido della composizione assicura circa la continuità, anche quando la figuratività diminuisce, discolora e si appiattisce.

Qui la vera forza poetica della satira giustiana, nel martellare di certe parole, come nel ritornello di Delenda Carthago, «e non vogliam tedeschi», o nell’associazione di tedeschi e granduca dell’omonima poesia, o nel grido «viva arlecchini» di Girella. Quando da questa briosità, leggerezza, da questo ammiccare, servendosi di modi toscani, spesso proverbiali, spessissimo popolari, il Giusti tenta una poesia di toni piú complessi, tra il patetico e il riflessivo, la sua riuscita è molto minore, si scopre piú facilmente una certa superficialità, l’incapacità di sviluppare a fondo un motivo che poteva presiedere alla poesia, come accade nel celebratissimo, un tempo, Sant’Ambrogio. E si sente allora che la ricerca dell’effetto stilistico è rimasta tale, che un piccolo concettismo, il gusto del ribobolo prevalgono insieme alla limitatezza della sua vita morale, confinata nel buon senso toscano, avendo elevato ad orizzonte totale la morale della chiocciola.

4. Narratori romantici

L’istanza realistica e quella fantastica sono ugualmente presenti nella narrativa romantica. È naturale che una poetica che voleva essere popolare, che cercava un pubblico piú vasto, che desiderava con quest’ultimo un rapporto piú spontaneo e cordiale, che auspicava contenuti piú umani, piú attuali, sui quali fosse piú naturale stabilire una comunicazione tra gli uomini, trovasse nella narrativa una propria dimensione autentica. Non è solo l’esempio manzoniano che inclinava a questa tendenza spiccata: lo stesso Manzoni, anzi, si muoveva nell’ambito di un gusto che aveva in Walter Scott l’esempio europeo piú tipico, di facile richiamo anche per il fatto che molto significativa nei romanzi di quest’ultimo era l’atmosfera e la delineazione di una psicologia dei personaggi affidata agli atti, ai gesti, alle azioni e in genere immediatamente comunicata negli accadimenti esteriori. L’introspezione psicologica, che sarà nel seguito della narrativa ottocentesca uno strumento caratterizzante per capire il rapporto tra autore e personaggio, e sarà sempre piú tormentosa, capillare, minuta, fino a congiungersi con la psicanalisi, nel primo tempo della civiltà romantica si svolge ancora a livello di coscienza: esempio famoso la notte della conversione dell’Innominato nei Promessi sposi. Ma piú modestamente la maggior parte della narrativa romantica s’affida alla rappresentazione di tipi umani abbastanza standardizzati, che valgono a mettere in rilievo le condizioni affettive, elementari, desiderate da un pubblico piú vasto e meno colto. È naturale, pertanto, che nella prima esperienza narrativa romantica l’istanza fantastica prevalga su quella realistica: una sorta di mediazione tra le due istanze sarà compiuta dal romanzo storico.

Il prevalere di quell’istanza fantastica si vede bene nell’uso che si fa nel Romanticismo della novella in versi: i primi, piú famosi esempi di essa li offre Tommaso Grossi (1790-1853), milanese, amico del Manzoni, ma da lui artisticamente lontanissimo, anche se nelle sue opere va certamente lodata la coerenza dei principi, l’onestà e la generosità dei sentimenti. Le sue prime composizioni furono novelle sentimentali in versi in cui l’abbandono romantico al lacrimoso, al patetico e d’altronde al colore dei tempi e delle nazioni si manifesta in testi disadorni, in una poesia che tende al prosastico: tale La fuggitiva (1816) e l’Ildegonda (1820). Piú tardi si provò in un poema in quindici canti, I Lombardi alla prima crociata (1821-1826), di discreta fortuna ai suoi tempi; e alla novella in versi tornò nel 1837 con Libico e Lida, dopo però aver dato la maggior prova di sé nel romanzo storico Marco Visconti (1831-1834). La pertinacia nel seguire passo passo, nella delineazione degli avvenimenti, nell’individuazione di momenti e di scene, nell’uso linguistico, il modello manzoniano, non toglie qualche pregio di piccolo realismo a certi momenti di questo romanzo. Sullo sfondo di una Lombardia trecentesca il Grossi narra gli amori contrastati di una Bice e di Ottorino Visconti. La storia è di maniera, i sentimenti scivolano fin troppo facilmente nel patetico. Oggi di tutto il romanzo si ricordano solo alcune scene meno ricalcate sul modello manzoniano, eppure piú cariche di un vero spirito romantico, come quella dei genitori dell’annegato, che si segnala per la fusione di realistico e patetico che propone, o quella della tempesta sul lago, per il sentimento aspro, vivo, odoroso della natura che in essa circola. E di gusto romantico sono le romanze inserite nel racconto, famosa tra tutte perché cantata dai prigionieri politici nelle carceri austriache la Rondinella pellegrina.

Il Grossi, dunque, realizza in sé per primo un passaggio, o almeno una continuata contaminazione di novella in versi e di romanzo storico. Ma la novella in versi, con quell’intonazione sentimentale-patetica che si è segnalata, ha una prosecuzione rigogliosa nelle Cantiche del Pellico (per cui v. cap. XXX, pag. 170), nei Romanzi poetici (1820) di Carlo Tedaldi Fores, nella Torre di Capua di Giovanni Torti (1829), nelle ballate e romanze, dove il tono popolaresco e romanzesco continua a montare liberamente, di scrittori come il veneziano Luigi Carrer (1801-1850), che fu anche sensibile critico dell’Alfieri e del Foscolo e in genere della civiltà letteraria primo-ottocentesca, il vicentino Arnaldo Fusinato, il pugliese Pietro Paolo Parzanese, il friulano Francesco Dall’Ongaro, in cui i motivi patriottici si vennero fondendo con motivi popolari e sentimentali.

Il romanzo storico, frattanto, adattando il gusto dell’evocazione storica (con preferenza netta pel Medioevo, come s’è detto) ad una destinazione pratico-politica, rievocazione di episodi di lotta degli Italiani contro dominatori stranieri o tiranni domestici, ebbe una sua singolare fioritura; dai fortunatissimi romanzi di Massimo D’Azeglio (cfr. il paragrafo IX di questo cap.), alla Margherita Pusterla (1838) di Cesare Cantú, ai romanzi di Giambattista Barzoni e di Carlo Varese, ai romanzi, per qualche aspetto oggi piú vivi, di Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873), livornese, mazziniano, democratico vivamente presente nelle battaglie politiche dell’800: nel ’29 fondò col Mazzini l’«Indicatore livornese», nel ’33 fu in carcere, nel ’48 fu deputato e ministro dell’interno; triumviro nel ’49, dopo la fuga del Granduca, col Montanelli e col Mazzoni, venne quindi ancora imprigionato e condannato all’ergastolo, graziato ed esiliato in Corsica; dopo il ’59 fu nuovamente deputato. I suoi romanzi storici appaiono spesso come dei manifesti di propaganda civile: tali La battaglia di Benevento (1828), L’assedio di Firenze (1836), la biografia romanzata dell’eroe corso Pasquale Paoli, e in diversa misura anche Veronica Cybo, Isabella Orsini, Beatrice Cenci. Ma in essi non mancano le piú aperte manifestazioni di gusto romantico, la tensione drammatica, la violenza fantastica fino al truce, che denotano un’influenza di un piú scoperto Romanticismo nordico, un’influenza che si può rintracciare anche nell’impasto umoristico che pervade storie come Serpicina (1829) e L’asino (1857). Una qualche svolta, almeno a livello di contenuti, si ebbe piú tardi anche nel Guerrazzi con racconti d’impegno sociale o psicologico piú complesso come Il buco nel muro (1862) e Il secolo che muore (1885).

Non andrà poi dimenticato il genovese Giovanni Ruffini (1807-1881), per un lungo periodo compagno di cospirazione e di esilio di Mazzini, di cui narrò in forma romanzesca la giovinezza nel romanzo Lorenzo Benoni, opera di solido impianto storico, scritta in inglese, come anche l’altro romanzo Il Dottor Antonio in cui ha vita romantica il paesaggio italiano.

Ma intanto una letteratura a carattere deliberatamente sociale era venuta dichiarandosi nei molti romanzi del milanese Giulio Carcano, che nel 1852 pubblicava La Nunziata, un romanzo che voleva suonare come una piena denuncia sociale, nelle novelle contadine della friulana Caterina Percoto (Malata, Prete Poco, Un episodio dell’anno della fame, La donna di Osoppo e altre, apparse nel 1858), e perfino nei piú incerti ideologicamente e letterariamente Novelle (1861) e Racconti (1869) di Francesco Dall’Ongaro.

5. Ippolito Nievo

Ma la figura che dopo il Manzoni diede i maggiori frutti nel campo della narrativa fu Ippolito Nievo, personaggio singolare, certamente, non solo perché impersona in qualche modo lo scrittore-uomo d’azione, lo scrittore-soldato che il Romanticismo piú schietto predilesse, ma anche perché si sottrasse maggiormente, con piú fertile e personale fantasia, all’ipoteca manzoniana, scrivendo opere che sono nelle loro punte piú estreme del tutto diverse dall’ideologia, dalla struttura, dall’orizzonte umano manzoniano.

Ippolito Nievo nacque a Padova il 20 novembre 1831. Il padre era un magistrato mantovano; la madre era figlia del patrizio veneziano Carlo Marin e di una contessa friulana, Isabella di Colloredo: tra Padova, Mantova, Venezia e il Friuli non solo si mosse la maggior parte della vita stessa del Nievo, ma soprattutto furono quelle le terre da cui trasse il maggior fervore della sua fantasia, indelebili nei suoi ricordi infantili, a lui ben note nelle loro condizioni sociali, presto tradotte non in sfondo ma in luogo concreto dell’azione delle sue opere narrative e poetiche. Studiò prima a Soave e a Verona, poi nel liceo di Mantova; nel ’49, conseguita la licenza liceale, fu a Pisa e a Livorno proprio nei giorni della dittatura guerrazziana, inviatovi dalla famiglia per sottrarlo ai fermenti del Lombardo-Veneto. A Mantova, nel ’51, dall’amore per Matilde Ferrari nacque la sua prima prosa narrativa, L’antiafrodisiaco per l’amor platonico (rimasto inedito fino al 1956), acre libretto fitto di umori esplicati in figure ora appassionate ora satiriche. La sua attività letteraria era avviata e nel 1854, frequentando l’Università di Padova per studiarvi legge, stampò i suoi primi Versi, in cui assumeva un atteggiamento anticlassicista deciso, anche se, come si può vedere in Drammaturgia popolare, non mancava di condannare quei poeti romantici che avevano scelto la facile via del patetismo piú dolciastro e lacrimoso. Da prodotti di questo tipo si può ricavare un’indicazione abbastanza precisa sui contorni della poetica nieviana in formazione, come anche dai contemporanei Studi sulla poesia popolare e civile massimamente in Italia, in cui auspicava una letteratura nuova, che ricavasse dalla sua stessa tradizione una possibilità concreta di rapporto col popolo e per questo costituiva una linea che univa lo slancio alfieriano al senso civile del Parini e del primo Foscolo, fino al Manzoni.

Dal ’55 poi, insieme alla pubblicazione di una nuova raccolta di Versi, attendeva a quell’insieme di racconti che avrebbero costituito il Novelliere campagnolo, alcuni lavorati con cura, scritti e riscritti (L’avvocatino, che diede luogo ad un processo in cui il Nievo appariva imputato di dileggio della gendarmeria austriaca), testimonianza tutti di un atteggiamento letterario che reclamava la necessità di un impegno politico. Cosí il primo di questi racconti, non vero racconto ma piuttosto aneddotica illustrazione di una presa di contatto di due giovani borghesi cittadini col mondo contadino, La nostra famiglia di campagna, oppone ai luoghi comuni del contadino cocciuto, sornione, interessato e ladro l’immagine di un lavoratore sfruttato, generoso, buono, ricco di umanità. È il primo avvertimento di un atteggiamento ideologico che, da una parte, porterà il Nievo a militare nel ’59 come cacciatore a cavallo nelle formazioni garibaldine, dall’altra a meditare sull’inderogabile necessità di una partecipazione popolare, contadina, alle battaglie del Risorgimento, a pensare insomma la rivoluzione nazionale anche come rivoluzione sociale, o almeno come occasione dell’inserimento delle classi subalterne nella vita nazionale. Per le novelle campagnole il Nievo aveva dinanzi esempi che andavano dal Carcano alla Sand, ma si deve dire che la generica simpatia di costoro per i poveri e per gli oppressi egli superava nel deciso realismo politico di un incontro tra classi borghesi e classi umili. D’altronde, mentre in alcune novelle trovarono luogo elementi piú scopertamente romantici (La pazza del Segrino), in altre si annunciava una dimensione umana, un gusto di personaggi, come anche di certo paesaggio friulano, quale si trova nel Varmo, che si sarebbero trovati tra poco nelle Confessioni.

Ma se il «novelliere campagnolo» è un indice sicuro di certe scelte già compiute dal Nievo, la lingua di esso, ancora spesso gonfia di un eccesso di eloquenza, come anche l’attività contemporanea o seguente ad esso, mostrano quanto cammino gli restava da fare perché i suoi ideali letterari-politici si attuassero. Di quest’ultima attività andrà ricordato il romanzo storico Angelo di bontà (1856), che assumeva come tema centrale la decadenza della grande repubblica di Venezia sul finire del secolo XVIII (altro tema che ricorrerà con ben maggior forza nelle Confessioni), ma soprattutto il romanzo rusticale Il conte pecoraio (1857), che narra le vicende a lieto fine di una fanciulla montanara che sconta con pene e sofferenze un suo errore giovanile, finché sarà redenta dall’amore di un giovane montanaro.

Intanto, nel ’57, Nievo s’è trasferito a Milano dove resta fino al ’59, salvo frequenti ritorni nel mantovano e nel Friuli. Sono anni assai fertili e non soltanto perché scrive ora la maggior parte delle Confessioni (tra ’57 e ’58), ma anche per altre opere. Intanto le due tragedie Spartaco e I Capuani e le commedie Pindaro, Pulcinella, I beffeggiatori, Le invasioni moderne, poi il racconto satirico Il barone di Nicastro (’57-59), che nello stesso loro impianto e argomento rivelano le deliberate scelte romantiche dello scrittore, infine la raccolta di poesie Lucciole (1858), un complesso canzoniere in cui si trovano, accanto a poesie d’amore, poesie satiriche, rievocazioni mitico-storiche, poesie politiche e altre d’occasione.

Maturava intanto quell’epico ’59 vissuto da lui come s’è detto: da quell’esperienza garibaldina nasce la raccolta Amori garibaldini (pubbl. 1860), in cui erompe un sentimento gagliardo, un ritmo spesso aperto, un che anche di avventato e improvvisato e, talvolta, un gusto visivo-gestuale come ne Il generale, che è un ritratto popolare-cantato di Garibaldi. Le delusioni del ’59 poi, l’armistizio di Villafranca (in una poesia che ha questo titolo) e l’abbandono di Venezia all’Austria, creano in lui una situazione di grave sconforto, di risentimento e quindi di urgenza d’azione. Ne nascono i due pamphlets, Venezia e la libertà d’Italia (1859) e il Frammento sulla rivoluzione nazionale (1860): nel primo v’è la denuncia aspra del tradimento compiuto contro Venezia, nel secondo la dichiarazione aperta che non vi sarà rivoluzione nazionale senza rendere compartecipi le classi subalterne, quei contadini che sopportano il peso economico di tutte le vicende della società, i piú gravi sacrifici, e che la borghesia manovra senza scrupoli. Tale denuncia si riflette anche in un abbozzo di romanzo, Il pescatore di anime, scritto sul finire del ’59, in cui vedeva nel piccolo clero il tramite per collegare le plebi contadine al movimento di rinnovamento nazionale. Conseguenza di questi atteggiamenti piú accentuatamente rivoluzionari è anche la decisione di partecipare all’impresa dei Mille. Combatté a Calatafimi e a Palermo, dove poi restò come intendente dell’esercito sotto il comando del generale Giovanni Acerbi. Interessante è in questi mesi l’Epistolario, soprattutto nelle lettere alla madre e alla cugina Bice Melzi d’Eril, lettere che con il Diario o Giornale della spedizione di Sicilia costituiscono un eccezionale documento sull’impresa garibaldina e sulla disposizione epica dello scrittore. Dopo un soggiorno in Lombardia tra fine ’60 e inizio ’61, tornò a Napoli e quindi a Palermo per prelevare i documenti dell’intendenza garibaldina. Il 4 marzo 1861 si imbarcò a Palermo sul piroscafo Ercole che la notte stessa naufragò: e nel naufragio scomparve il giovane scrittore.

Come si vede, nel breve arco della sua vita il Nievo produsse molto, febbrilmente, spesso di corsa, ma sulla base di una vicenda intellettuale, morale e politica di grandissima vivacità. L’opera maggiore in cui rifuse tanti spunti ed elementi, paesaggi, personaggi, avvenimenti storici e fantastici, figure e figurine, già affiorati in precedenti esperienze narrative, restano le Confessioni di un italiano, che videro la luce solo nel 1867. Quest’opera è la storia, principalmente, di Carlo Altoviti: il tempo è quello degli ultimi anni della repubblica di Venezia e le vicende italiane del primo Ottocento, dall’età napoleonica ai moti del ’21 e del ’31. Queste vicende costituiscono la rete realissima su cui poggiano le esperienze, la vita interiore, la formazione e lo svolgimento del carattere dei singoli personaggi; una folla varia questi ultimi, segno dello straordinario fervore fantastico che accompagna costantemente il Nievo lungo tutto il romanzo. Vario di tono, questo: idillica e patriarcale l’apertura, in cui è descritto il castello di Fratta, nella sua curiosa, bizzarra architettura, cresciuta nel tempo senza ordine e norma. E restano nella memoria la cucina, con il suo insieme di ombre e di bagliori, i castellani che sembrano macchiette uscite da una fantasia umoristica, Monsignor Orlando, il capitan Sandracca, il vecchio conte, ma che collocati accanto a personaggi di grande intensità sentimentale, morale e ideologica come la Pisana, Clara, Lucilio Vianello, fanno intravedere i contrasti che sono sotto quel mondo solo apparentemente tranquillo.

Il Nievo reca in queste pagine dell’infanzia di Carlino un cumulo di ricordi autobiografici, della sua stessa infanzia nel Friuli, luogo caro della memoria, tra il chiuso del castello, con le sue cerimonie che sostituiscono la vita, e l’aprirsi delle campagne intorno fino all’infinita distesa del mare che in un’infantile scorribanda Carlino un giorno scopre. In questo mondo che in superficie pare pacifico e disposto a risolvere in commedia (caratteristiche le pagine sull’assedio del castello da parte del Partistagno) turbamenti e tensioni che covano in esso, si prepara però l’allargamento dell’orizzonte, avvertito da certi personaggi e promosso dagli avvenimenti di fine secolo. Alcune delle pagine piú belle il Nievo le scrive sull’arrivo dei francesi nel Friuli, le sommosse popolari, lo sconvolgimento subitaneo di questa vita patriarcale, tutti eventi che incidono nella storia dei personaggi, di Carlino innanzi tutto, che si vede elevato dal popolo in rivolta ad avogadore e perfino s’incontra con Napoleone nel castello di Fratta; e tra le pagine piú vive vanno contate quelle che raccontano la caduta dell’antica repubblica di Venezia, l’ultima seduta del Consiglio Maggiore, di cui Carlino è entrato a far parte attraverso intricate vicende, svolte nel segno dell’avventura. Fremono queste pagine di sdegno, di pietà, di orrore dinanzi alla viltà, all’inutile coraggio, al tradimento dei patrizi veneti, oppure di esultanza per il rinnovamento democratico che gli avvenimenti promettono. Ma, in tutto questo allargarsi di vicende e di trama, ciò che è certo è che il mondo idillico-patriarcale del castello di Fratta, visto con gli occhi del bambino che tutto scopre da quell’angolo di terra, non può essere isolato dal resto del romanzo, ché in esso vi sono le premesse di tutto ciò che avviene dopo: e queste premesse non possono essere che nel carattere di personaggi.

Centrale tra questi la Pisana, figlia minore del conte di Fratta, amica inseparabile di giochi di Carlino, che ne subisce le piccole prepotenze, ma anche ne partecipa gli abbandoni affettuosi, immagine bambina di quello che sarà la donna, appassionata, libera nel disporre della sua vita sentimentale e travolta dall’intrigo di avventure che il mondo che si rinnova prepara per tutti. Quando Venezia cade in mano agli Austriaci dopo Campoformio, Carlino passa in Lombardia e partecipa poi alla difesa della repubblica partenopea con la legione riunita da Ettore Carafa, uno dei martiri del ’99. Crollata la repubblica a Napoli, egli, ritrovata la Pisana, ripara a Genova proprio nel tempo di quel memorabile assedio. Nel grande periodo napoleonico assume, quindi, vari uffici pubblici: ma tutte queste nuove vicende il Nievo mai le separa dalla storia travagliata, fatta anche di incomprensioni e di tensioni, di Carlino e della Pisana. Che a suo modo ama anch’essa Carlino, e l’ama fino al sacrificio, come si vede nelle pagine dedicate all’esilio londinese dei due, dopo i moti napoletani del ’21. Personaggio nuovissimo questa Pisana nella letteratura italiana e tale da apparire talvolta il vero protagonista del romanzo: ché, se la trama di questo si svolge intorno alla figura di Carlo Altoviti, che, ottuagenario, ricorda, il filo che dà senso a tutta la sua vita è appunto il suo amore per la Pisana. Come un po’ tutta la vita di Carlo ruota intorno a quest’ultima, cosí tutto il romanzo finisce con l’accentrarsi intorno a questo amore e a questo personaggio.

Il Nievo tuttavia non rinuncia a narrare la sua vasta storia italiana neppure dopo la morte della Pisana: troviamo cosí Carlo nel ’31, dopo i moti che portarono alla costituzione delle Province unite italiane, ad Ancona, dove si è recato in cerca del figlio nato dal matrimonio di lui con l’Aquilina, una mite ragazza che la Pisana stessa ha voluta sposa di Carlo. Insomma, in ogni momento del romanzo le cose sono densissime, la trama foltissima, le avventure si succedono alle avventure, in un ritmo incalzante che costituisce la non ultima ragione di bellezza, di vitalità dell’opera.

Nella sua ampiezza, nella folla dei suoi personaggi, nella sua sterminata varietà, questo romanzo non solo è un vastissimo affresco del gusto, degli atteggiamenti del mondo romantico nel suo complesso, ma è anche l’opera piú significativa che la narrativa italiana abbia dato tra il romanzo manzoniano e l’apparizione del Verga.

6. Niccolò Tommaseo

Varie esperienze narrative condusse anche Niccolò Tommaseo, una personalità fondamentale per comprendere lo svolgimento del Romanticismo in tutto il suo corso. Poeta, narratore, critico letterario, erudito, storico, e poi ancora linguista, giornalista, uomo politico, il Tommaseo rappresenta bene aperture e limiti del pieno Romanticismo italiano. Se non veramente dipanati, sono certo presenti nella sua vasta produzione tutti i motivi che il Romanticismo fece affiorare, la meditazione sulla storia, la sensibilità acuita, il sentimento religioso del fare umano, la ricerca espressiva e linguistica.

Nato a Sebenico, in Dalmazia, il 9 ottobre 1802, studiò prima a Sebenico e nel seminario di Spalato, poi all’Università di Padova dove si laureò in giurisprudenza nel 1822. Sono anni già fertili di versi e di prose, che attraggono su di lui l’attenzione di molti. Dal ’23 si stabilí in Italia, a Milano presso il Rosmini prima, poi a Firenze come collaboratore fisso dell’«Antologia» del Vieusseux. Accanto ad un’abbondante produzione poetica già si colloca in questi anni fiorentini (fino al ’32) la sua prima attività di linguista, che fra l’altro approda al Dizionario dei sinonimi (1830). Nel ’34 è costretto all’esilio a Parigi, a Nantes, in Corsica: un’esperienza che sarà ben viva nel romanzo Fede e bellezza, di cui non è difficile cogliere gli aspetti schiettamente autobiografici. Ma intanto nel ’35 pubblica a Parigi gli Opuscoli inediti di F. Gerolamo Savonarola, che inizialmente dovevano essere intitolati Dell’Italia, e che sono importanti come la prima di tante opere destinate a porre dinanzi all’Europa il problema italiano, precorritrici quindi del Risorgimento nazionale. E in questi anni d’esilio vengono fuori il commento alla Commedia (1837), il romanzo storico Il Duca d’Atene (1837), le Memorie poetiche e poesie (1838), cui seguono poi l’altro romanzo Fede e bellezza (1840), il Dizionario estetico (1840), i Canti popolari corsi, toscani, greci e illirici (1841) e tante altre cose di educazione, di critica, di saggistica politica.

Intanto dal ’39 era ritornato a Venezia e il ’48 lo trovò tra le figure di primo piano, partecipe del governo provvisorio di Daniele Manin e poi ambasciatore di Venezia a Parigi. Ma il disaccordo col Manin, il rifiuto della politica filopiemontese e la sua fedeltà al neoguelfismo gli facevano rinunciare a ogni incarico. Dopo l’estrema resistenza di Venezia nel ’49, cui partecipò con grandissimo fervore, si rifugiò a Corfú, dove rimase tre anni, dove sposò Diamante Pavello e dove, malgrado la cecità che lo colpí, continuò a produrre numerosissimi lavori, poesie, opere di meditazione, di filosofia, di critica. Nel ’54 a Torino dava inizio al Dizionario della lingua italiana, apparso per la prima volta nel ’56, opera immane e per lungo tempo insostituita. Dopo il ’59 si recò a vivere a Firenze, dove morí il 1° maggio del 1874. Anche in questi ultimi anni della sua vita scrisse moltissimo, di estetica (Ispirazione e arte, 1858), di politica, di storia della cultura (Di G.P. Vieusseux e dell’andamento della civiltà italiana in un quarto di secolo, 1863), di critica (Nuovi saggi su Dante, 1865), e di infinite altre cose, che qui neppure possono essere elencate.

Vita irrequieta, fervidissima, disposta agli atteggiamenti piú estremi, alla piú scoperta sensualità e all’ascetismo piú rigoroso, allo slancio politico, all’intervento attivo e rivoluzionario e alle concezioni piú retrive: uomo veramente di tutti i contrasti, impietoso nella sua fervida religiosità, di sapore biblico, complesso e sfumato nella sua rigidità, appassionato nel suo eruditismo e pedantismo. Immagine di ciò che nella sua sostanza piú contorta il Romanticismo era.

La sua enorme produzione è tutt’altro che disorganica, sparsa: una sorta di spirito unitario circola in essa, in ogni sua parte, ed è certo la personalità poliedrica stessa del Tommaseo, ma piú chiaramente la contemporaneità dei suoi interessi, la possibilità costante di mettere l’uno al servizio dell’altro, di determinare tra di essi precise corrispondenze. L’interesse linguistico (esteso, fra l’altro, a lingue straniere, come il croato, la lingua della sua fanciullezza), che lo impegna in tante opere di erudizione, commenti, dizionari, analisi linguistiche, traduzioni, è naturalmente sempre presente nella sua attività di poeta e di narratore e lo stimola, lo guida, costituisce uno strumento di sorveglianza su di sé. L’interesse politico, allo stesso modo, non è mai meno di un orizzonte di tutta la sua attività, come è la sua religiosità aggressiva, dura, strumento di giudizio oltre che di vita intima.

Da questo complesso crogiuolo vien fuori una poesia spesso tormentata: e basterebbe pensare alle scelte severe che condusse in essa per ogni nuova edizione, alle esclusioni, ai rifacimenti e ai rinnovati interventi (che d’altronde non furono meno intensi per le altre sue opere, di narrativa come di erudizione), per rendersi conto che tale tormentosità riguardava contemporaneamente i mezzi espressivi e i contenuti. Probabilmente egli non raggiunse mai l’altezza liberatrice della vera poesia, ma è indubbio che in tutta la sua produzione poetica v’è piú di una traccia dell’urto che si verifica in lui tra una sensualità esuberante e una religiosità conquistata duramente, pronta a tradursi in atteggiamento biblico, a sublimarsi in altezza di fede che travalica i limiti di un’educazione clericale chiusa. Tipici in questo senso sono gli esametri Voluttà e rimorso, mentre altre componenti di malinconia, di pudore, di tormento dinanzi al peccato si trovano in molte composizioni come Espiazione, Fede, fino all’inno appassionato come in Al Redentore.

Cosí accanto all’abuso di maniere letterarie correnti si trova nella sua poesia l’avvertimento di modi, di sensibilità nuovi che hanno qualcosa di decadente e in ogni caso trascinano lontano dalla matrice piú schiettamente romantica. Cosí ancora, accanto a componimenti scritti sotto la spinta di uno scopo prevalentemente pratico, si trovano componimenti di intonazione nuova, quasi piú prosastica nell’andamento, che però risulta una scelta sicura per rappresentare condizioni delicate e tortuose dell’animo umano, come nel poemetto Una serva, che presenta toni che hanno qualcosa di crepuscolare. Il piú sovente è tuttavia in componimenti brevi, che hanno il sapore e la dimensione del frammento, che la poesia batte piú sicuramente: ne vengono fuori accostamenti, analogie, illuminazioni di rapporti segreti, un gioco di immagini e di suggestioni evocatrici denso e conciso, perseguito attraverso, anche, una rara sapienza metrica.

La tormentosità della sua condizione umana risulta pienamente nel romanzo Fede e bellezza, sostenuto sovente da un vero afflato lirico che s’effonde ora nel paesaggio, ora nella delineazione di figure e di psicologie. Nel complesso è proprio la penetrazione psicologica che prende piú profondamente: e nella narrazione del torbido amore di Giovanni per la redenta Maria si ritrovano tutti i tormenti generati dal contrasto tra sensualità e aspirazione alla purezza, tra umanità tenera e pensosa e asprezza di una religione quasi disumana. Se il romanzo risulta alla fine assai sbilanciato, non solo per gli spiriti che lo pervadono, ma anche per le sue interne strutture, tuttavia non appare mai ozioso, mai vuoto: al contrario, sempre denso, anche quando si fa piú enfatico, sempre partecipato, anche quando si fa piú capzioso.

E, sia pure tra frequenti e pericolosi abbandoni, in un’indomata rete di contrasti esasperati, pagine belle si trovano nel racconto Due baci (1831), nella sua stessa dimensione prevalentemente moralistica e pedagogica, nell’andamento psicologico-lirico di Un medico (molto vicino per l’idealizzazione del protagonista a Fede e bellezza), e perfino nel racconto storico Il Duca d’Atene che, sulla traccia del Villani e del Machiavelli, narra la cacciata da Firenze del duca d’Atene nel 1343. E un’opera di grande interesse e di rara finezza nell’interpretare sé e la sua opera sono le Memorie poetiche, vasta autobiografia interiore, preparata dalle note del Diario intimo, che, pubblicato nel 1938, ha molto contribuito a ridimensionare la figura del Tommaseo.

Ma una particolare dimensione del gusto letterario del Tommaseo è rappresentata dall’attenzione ai fatti popolari, leggende, linguaggio, poesia: ciò già si scorge negli articoli di descrizione della Toscana intitolati Gite, spicca nelle Scintille, prose dedicate alla sua nativa Dalmazia, alle semplici, sane popolazioni di quelle terre che egli vede, per la loro moralità diritta e popolare, come lo strumento di unione dell’Europa e dell’Oriente, e trionfa decisamente nelle traduzioni dei Canti popolari greci ecc., che sono anche apparsi, per la densità di scrittura che vi raggiunge, come i risultati piú alti, consistenti, durevoli, della sua attività letteraria, al di là delle suggestioni culturali e sensibili della sua personale produzione poetica.

7. Svolgimento della poesia romantica

Se questo intrecciarsi di motivi, di sensibilità, di suggestioni vale a mettere oggi storicamente in risalto la figura del Tommaseo e in particolare la sua esperienza poetica, con il respiro complesso che ebbe e le prospettive sul futuro che aprí, nel Romanticismo ebbe anche espressione una produzione piú tipica per motivazioni, gusto, orizzonte ideologico. Punto di partenza per considerare questa produzione, che spesso ebbe nei suoi tempi larga risonanza ma che oggi ci appare piú che altro documentaria, è quella poesia lirico-narrativa, sentimentale e patetica, su cui influiva soprattutto un certo gusto lacrimoso o comunque la tendenza fantastico-evasiva del Romanticismo, una poesia che ha il suo modello tipico nella novella in versi, di cui s’è detto sopra (cfr. par. IV, pag. 237). Svolgimento ne fu la ballata e la romanza del maturo Romanticismo ed esito finale la varia produzione di Prati e di Aleardi.

Giovanni Prati, trentino, nacque nel 1814 e morí a Roma nel 1884, celebrato, largamente al di sopra dei suoi meriti, come vero interprete dell’anima romantica. Subito famosa una sua novella in versi, Edmenegarda (1841), piú legata tuttavia ad un modulo invecchiato di primo Romanticismo. Piú tardi venne elaborando vari motivi raccolti dal Romanticismo europeo (Byron, Lamartine) e nacquero poemi come Rodolfo, Armando. Ma la sua produzione piú significativa e migliore va cercata in raccolte piú tarde di versi. Già in Psiche (1876) troviamo temi meno caratterizzati romanticamente e anche un fare piú dimesso che consente una maggior limpidità: cose che naturalmente finiscono col ridimensionare fortemente l’iniziale carica romantica del Prati; segno anche che il suo Romanticismo era abbastanza raccogliticcio, come dimostra del resto un approdo meglio ancorato alla tradizione italiana, anche classica, in fatto di linguaggio. Questi esiti sono ancora piú evidenti nella raccolta Iside (1878), dove poesie come il Canto d’Igea (accompagnato da fortuna fino ai nostri giorni), pur con certe sue piú marcate diseguaglianze, e soprattutto Incantesimo, testimoniano largamente della vena facile del poeta, ma anche di una sua possibile felicità di risultati quando la sua superficialità s’incontra con una disposizione musicale e cantabile che non sarà errato considerare nella poesia l’aspetto parallelo di quello che il melodramma ottocentesco è nella musica. Questo nei rari momenti di coerenza che il poeta ebbe: ma troppo spesso la sua tendenza all’improvvisazione, alla comunicazione momentanea e superficiale lo fece indulgere alle fantasie piú vuote, agli abbandoni piú sentimentalmente romantici, ad un certo fastidio della cura formale e stilistica.

Piú severo in questo senso fu Aleardo Aleardi, veronese (1812-1878), che fu anche meglio al corrente degli sviluppi estremi del Romanticismo europeo, tendenzialmente del resto, per una certa attenzione al linguaggio, ai valori metrici, alla disciplina letteraria, orientato verso un incontro col parnassianesimo. Se non profonda commozione si potrà pertanto trovare in composizioni come Monte Circello, Le città italiane marinare e commercianti, Le prime storie, insieme ad un gusto storico abbastanza esigente per fedeltà e ad una capacità di svolgimento ampio e ordinato, una piú attiva partecipazione alle vicende umane, che tuttavia sfocia anche in lui, come nel Prati, piuttosto in sentimentalismo vaporoso che in coerenza rappresentativa.

Una particolare linea della poesia romantica è rappresentata dalla poesia di contenuto dichiaratamente e quasi esclusivamente politico, che può andare dalle forme ancora settecentesche di Gabriele Rossetti (1783-1854), abruzzese, partecipe dei moti del ’20 e del ’48, esule poi in Inghilterra, alla poesia cantabile, lucida, ma a sfondo pratico-patriottico, di Goffredo Mameli (morto nel 1849 nella difesa di Roma), alla lirica di incitamento patrio di Luigi Mercantini, marchigiano (1821-1872), alla poesia dell’esilio di Pietro Giannone modenese (1792-1872) a quella piú complessa perché sostenuta da intensa vita morale di Alessandro Poerio napoletano (1802-1848).

Ma non si potrà tralasciare, parlando di poesia di quest’età, la figura dell’abate vicentino Giacomo Zanella (1820-1888), anche se sospinta da una poetica svolta in direzione esattamente opposta a quella fortemente romantica di Prati e Aleardi. Questi, fedele sostanzialmente alla sua educazione umanistica, si affidò spesso ad una volontà di costruzione, ad una risoluzione eloquente che non era sostenuta da adeguate capacità. Le migliori realizzazioni le diede cosí in un’ode dal ritmo concitato nella rievocazione della preistoria come Sopra una conchiglia fossile, o nel ricalco pariniano di Egoismo e carità, o in alcuni sonetti dell’Astichello. Dove invece volle tentare una poesia di pensiero (sfiorato come fu da alcuni problemi che tra romanticismo e positivismo si affacciavano alla cultura del tempo: rapporto tra scienza e fede, temi sociali e scientifici), come nei poemetti Milton e Galileo, Microscopio e telescopio, Ospizi marini, la mancanza di forza del pensiero, di saldezza concettuale e organizzativa si fanno piú evidenti. Il gusto zanelliano, tuttavia, non fu senza seguito, anche per ragioni immediate di arretratezza culturale: poetesse come la perugina Alinda Brunacci Brunamonti e la padovana Vittoria Aganoor Pompili ne seguirono i passi. E perfino in una generazione piú giovane una certa impostazione eloquente ed enfatica, di tipo zanelliano, ma sorretta da un bagaglio di elementi positivistici, si trova nella poesia di Mario Rapisardi, catanese (1844-1912), autore di poemi, Palingenesi, Lucifero, Giobbe, Atlantide, e di una quantità di minori componimenti in cui, forse, va ricercata una sua maggiore autenticità.

Un cenno va fatto infine dei poeti della cosiddetta «scuola romana», soprattutto Giambattista (1832-1868) e Giuseppe Maccari (1840-1867), di recente sopravvalutati per certo influsso di modi leopardiani, di un Leopardi piú esteriore, piú aderente ad una realtà minuta (il Leopardi dei minori idilli del ’29, per intendersi), che si sono voluti vedere nella loro produzione, ma in realtà piccoli poeti provinciali che vennero accogliendo tardi avanzi di una lunga tradizione che dal Duecento, dal Sacchetti, dal Poliziano giungevano fino all’Arcadia.

8. Teatro romantico

Nell’accompagnare l’impianto e lo svolgimento romantico si può facilmente pensare che il teatro fosse chiamato ad assolvere un ruolo importante: e di fatto le prime discussioni romantiche ebbero ben presente il teatro; nella stessa lettera della Staël si accennava alla necessità di un rinnovamento teatrale che portasse il teatro fuori dal consunto gusto arcadico-melodrammatico. D’altronde un maturarsi di esigenze teatrali fu al centro della meditazione di poetica del Manzoni, come si è visto. Ma bisogna dire che, al di là delle tragedie di forte impianto letterario del Manzoni stesso, il teatro non diede molti altri risultati validi.

Già s’è detto della produzione teatrale del Pellico (cap. XXX, p. 170). La figura che parve meglio interpretare le esigenze romantiche di un teatro che si richiamasse a importanti eventi e a forti figure della storia italiana e nello stesso tempo interpretasse il bisogno di azione del Romanticismo in chiave di forte rilievo drammatico è quella del toscano Giambattista Niccolini (1782-1861). Il Niccolini ebbe una vasta produzione di tragedie di ispirazione storica, Arnaldo da Brescia, Giovanni da Procida, Antonio Foscarini, Ludovico Sforza, con le quali intese propugnare le idealità risorgimentali di indipendenza e di libertà e battersi contro la teocrazia e i tiranni stranieri e domestici. In tutte le sue tragedie egli non andò oltre la creazione di tipi piuttosto che di personaggi; questi assolvono il compito ideologico cui egli li chiamava e lo assolvono con una coscienza letteraria educata e formalmente accurata, come si può vedere nell’eloquenza di tanti loro discorsi. Non v’è dubbio che il modello rimaneva l’Alfieri, ma con molta minor conoscenza del cuore umano, con molta minor capacità di tratteggiare e far vivere le passioni, i sentimenti, i nuclei intimamente tragici delle proprie creature poetiche.

Né mancò una produzione teatrale rivolta a colpire piú direttamente il largo pubblico con un deliberato calcare sulla sentimentalità, sugli improvvisi scatti e svolte di una teatralità un poco esteriore. Lo scrittore piú fortunato fu in questa direzione Paolo Giacometti (1816-1882), di Novi Ligure, che, accanto a drammi storici come Sofocle, Torquato Tasso, Maria Antonietta, annoverò un’opera come La morte civile, che dura ancora sui palcoscenici.

Anche nella commedia non mancarono tentativi che naturalmente si richiamarono all’esempio goldoniano: si potrà ricordare il toscano Tommaso Gherardi del Testa (1814-1881), che fu autore di molte commedie schiettamente popolari e passò la mano ai due Martini padre e figlio, pur essi fiorentini, e il romano Giovanni Giraud (1776-1834), autore di opere leggere e piacevoli, in bilico tra la vera commedia e l’opera buffa, come Don Desiderio disperato per eccesso di buon cuore, o anche di opere di satira sociale (L’ajo nell’imbarazzo).

Ma un’immagine del teatro nell’età romantica non sarebbe completa se non si facesse menzione di alcuni grandi attori come Gustavo Modena, Tommaso Salvini, Adelaide Ristori, che furono grandi interpreti alfieriani con una recitazione mossa, molto vivace, intensamente partecipata, deliberatamente opposta al gusto statico, alla dizione eloquente, tanto da far smarrire il senso stesso della tragedia, che si manifestò in età neoclassica con un attore come il Morrocchesi. D’altronde il Romanticismo trovò nel melodramma ottocentesco il modo di dare una vivace espressione della propria anima, soprattutto quando testi anche poveri o ingenuamente intessuti o sentimentalmente esasperati s’incontrarono con un grande genio musicale come quello di Giuseppe Verdi, che va considerato uno dei maggiori interpreti del Romanticismo, non solo perché ne condivise gli ideali, ma perché riuscí a rappresentarne a fondo e compiutamente i gusti, le esigenze, le tendenze.

9. Prose di memorie

Un’altra tipica manifestazione della letteratura romantica fu la prosa memorialistica. Il gusto romantico della confessione, unito con quello di ricostruire tutta l’atmosfera di un’età attraverso l’angolazione di un individuo, è alla base di questo genere di letteratura, che ha del resto un grandissimo modello nella Vita di Alfieri. Naturalmente quest’esempio viene variamente usufruito nelle sue principali componenti, quella illuministica dell’uomo considerato in rapporto ad una società e alle vicende della formazione, dell’acquisizione del carattere e della mente, e quella, meglio prossima al Romanticismo, dell’introspezione psicologica, dello scavo dei sentimenti, dell’inseguimento dei piú reconditi e segreti stati dell’animo umano, nonché del collegamento ad una situazione storica. Lungo queste due direzioni fondamentali la presenza alfieriana è indiscutibile in tutto questo genere letterario, e se sulla seconda di queste linee possiamo collocare Le mie prigioni del Pellico di cui s’è detto (cap. XXX, p. 170), sull’altra possiamo collocare quello che è certo il capolavoro di un onesto, anche se mediocre, scrittore quale fu Massimo D’Azeglio, cioè I miei ricordi.

Il D’Azeglio nacque da una grande famiglia piemontese a Torino nel 1798: il padre Cesare, fortemente legato per tradizioni e per convinzioni all’aristocrazia e alla corte piemontese, era stato decisamente ostile a Napoleone e per fedeltà al suo re si era ritirato in esilio a Firenze durante gli anni della dominazione francese. Uomo colto, aveva espresso dei dubbi circa l’opportunità dell’adesione del Manzoni al Romanticismo e questi gli aveva inviato quella Lettera che dichiarava apertamente le ragioni di tale adesione. In questo clima aristocratico, non insensibile peraltro alla cultura, era cresciuto il D’Azeglio, che manifestò presto un’insoddisfazione di fondo verso quell’ambiente e dopo qualche giovanile disordine si volle fare pittore. A Roma praticò la pittura, dedicandosi alla ritrattistica e alla rievocazione storica: fu questa la via che lo avvicinò all’arte e, come fu pittore impressionistico, rapido delineatore di un paesaggio e abile ritrattista, cosí fu scrittore impetuoso nel narrare, vigoroso nel tratteggiare una figura piuttosto nei tratti esterni che nella psicologia, vario nel disegnare tipi umani diversi, appassionati, comici, generosi, fragili.

Nel 1833 pubblicò il romanzo storico Ettore Fieramosca, la cui idea egli derivava da un suo quadro che rievocava la disfida di Barletta del 1503, quando tredici italiani si scontrarono contro tredici francesi per difendere il nome italiano. Fu un romanzo di molta fortuna per il colore storico, sommario ma efficace, che lo pervadeva, per il vigore nel rappresentare certe figure a tutto tondo come appunto l’eroe che dà il nome al romanzo, per la capacità di delineare un ideale paesaggio in cui collocare i suoi eroi, per l’infinito numero di figure e figurine che sapeva evocare. La fortuna del romanzo lo convinse a scriverne un altro, Niccolò de’ Lapi (1841), che faceva perno sull’assedio di Firenze del 1530 e che, seppure con meno impeto, riusciva un disegno romanzescamente efficace e romanticamente colorato di quelle vicende storiche.

Voltosi alla politica, stese due opuscoli di grande efficacia per la violenta denunzia dei mali dei governi pontificio e austriaco, Degli ultimi casi di Romagna e I lutti di Lombardia: qui anche la scrittura del D’Azeglio si solidifica in un esercizio di chiarezza che è anche piú evidente nei Racconti, leggende e ricordi della vita italiana, i quali sono la stesura in forma piú ampia, con una maggiore evidenza bozzettistica, di quello che sarà il suo capolavoro, I miei ricordi. Questo libro, che narra le vicende dello scrittore fino al 1846 e che fu pubblicato postumo nel ’67, dichiara apertamente un suo fine moralistico, un’intenzione educativa poco sfumata, ma molto concreta: ciò che è importante sottolineare è il fatto che questa dimensione si concilia perfettamente col gusto narrativo, con la capacità del D’Azeglio di sbozzare bravamente episodi e figure. E certe pagine di riflessione (un’azione o un uomo sono tanto piú grandi quanto piú tornano in pubblica utilità: Jenner, scopritore del vaccino del vaiolo, è piú grande di Napoleone, anche se meno noto) si fondono perfettamente con altre di rievocazione di figure quotidiane e di paesaggi (belle soprattutto quelle sul periodo romano con le loro aperture sulla campagna romana).

In questa direzione altra opera di rilievo sono Le ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini (apparse postume nel 1879), che racconta fedelmente la propria vita e soprattutto il suo slancio ideale, patriottico, vigoroso nella denuncia dei vecchi governi assolutistici, vigoroso nell’indicare i sentimenti, il coraggio dei patrioti dinanzi alle minacce, alla prigione, all’esilio. Nell’insieme questo libro, sia pure in una maggiore sobrietà di scrittura che risponde ad un minor fervore fantastico, ma ad uno sforzo continuo di raffigurare piú a fondo sentimenti e ideali, è assai vicino a I miei ricordi di D’Azeglio, anche se l’angolazione da cui le cose sono viste non è quella dell’aristocratico piemontese, che si converte al liberalismo moderato, ma quelle del popolano napoletano, generoso e deciso. Settembrini era nato a Napoli nel 1813; aveva insegnato in Calabria, ma insieme s’era dedicato attivamente alla vita politica che non si poteva manifestare che nella cospirazione. A lui si deve la Protesta del popolo delle due Sicilie apparsa anonima nel ’47. Il ’48 lo aveva trovato in esilio a Malta; ma non tardò a tornare dopo la concessione della costituzione. Incarcerato nel ’49, subí un processo, cui seguí nel ’51 la condanna a morte, convertita nell’ergastolo. Per lunghi anni rimase prigioniero nell’isola di Santo Stefano, finché riuscí a fuggire con la nave che, insieme ai suoi compagni, lo portava in esilio perpetuo in Argentina. Si rifugiò a Londra, dove rimase fino al ’60.

Le pagine delle Ricordanze che rievocano i giorni del processo e della condanna sono tra le piú memorabili che siano emerse dalla memorialistica dell’Ottocento per l’intensità sobria e composta di sentimenti, per il coraggio, per il senso di sacrificio, per la pienezza umana che ne scaturisce. Dopo il ’61 fu professore di letteratura latina e quindi di letteratura italiana a Napoli: da quest’ultimo insegnamento nacquero le Lezioni di letteratura italiana che sono impregnate delle idealità rinnovatrici del Settembrini, accese dall’aspro suo anticlericalismo, connesse con la vita civile e soprattutto unitaria dell’Italia in tutte le età della sua storia, talvolta anche straordinariamente incisive per singoli giudizi. Tuttavia mancò al Settembrini una vera capacità di individuare le interne articolazioni della storia, di collegare quindi – come riuscirà al suo vicino grande, di lui tanto piú complesso e profondo, De Sanctis – l’individuazione artistica dell’opera letteraria con la sua collocazione storica.

Ma l’Ottocento diede anche libri di memorie di diversa occasione e di diversa ispirazione: ché tali possono essere detti sia i Ritratti (di molti letterati da lei conosciuti e spesso frequentatori del suo salotto veneziano, Alfieri, Pindemonte, Cesarotti, Bertola, Foscolo) di Isabella Teotochi-Albrizzi (1760-1836), sia il notevolissimo Manoscritto di un prigioniero del livornese, mazziniano, democratico Carlo Bini (1806-1842). È questa un’opera di ispirazione chiaramente autobiografica (il Bini fu prigioniero per qualche tempo nella fortezza di Portoferraio), ma arricchita poi di episodi e di incontri umani spesso narrati con fine humour, carichi sempre di un’attiva partecipazione romantica al loro contenuto. Di altri libri di memorie soprattutto politiche come quelle del rivoluzionario Felice Orsini, del patriota pisano Giuseppe Montanelli, del fiorentino Gino Capponi, non si può far qui esplicita memoria, se non ripetendo ancora che la memorialistica fu veramente un’autentica disposizione intellettuale, morale, ideologica e in qualche caso artistica dell’Ottocento romantico.

10. Filosofi, politici, storici

Poiché il Romanticismo fu soprattutto un cosciente, deliberato sforzo di rinnovamento del mondo culturale italiano, sospinto per di piú da nuove condizioni ed esigenze della vita politica, della vita della società, segnato dal bisogno di un diverso contatto e rapporto con la cultura europea pur essa, e prima che in Italia, in movimento, è chiaro che di esso non si può avere una nozione precisa se non richiamandosi all’attività di pensiero, alla teorizzazione e in genere alla saggistica politica cui dette luogo, e da ultimo anche alla saggistica storica che fu, come s’è avvertito, una tipica manifestazione romantica. Dal punto di vista filosofico, non potendo qui soffermarci adeguatamente sullo svolgimento del pensiero italiano, va almeno ricordato che tre risultano le componenti essenziali che influenzano la filosofia italiana di questo tempo: innanzi tutto una persistente eredità settecentesca, in particolare di quei circoli di cultura attivamente interessati ad una riforma della vita pubblica e in genere del costume; quindi un influsso crescente, lungo lo svolgimento dell’età romantica, della filosofia tedesca; infine un contatto, mantenuto attraverso le tradizionali vie d’accesso geografiche e culturali, del pensiero francese. È certo cosí che nell’ambiente milanese, in cui sono piú vividi i richiami al «Caffè» e ai suoi rappresentanti, quel certo illuminismo affiora di continuo anche in una personalità come Gian Domenico Romagnosi, pur partecipe, come s’è accennato, del movimento romantico, ma tutto impregnato di interessi civili, sociali, giuridici. Al contrario l’influsso piú pratico, meno sistematicamente filosofico della cultura francese sarà evidente in figure come l’educatore Raffaello Lambruschini (1798-1873) o anche lo stesso Vincenzo Gioberti. A Napoli, infine, piú profondo sarà il rinnovamento filosofico con l’accoglimento dello hegelismo, come si può vedere in Bertrando Spaventa (1817-1883) o in Angelo Camillo De Meis (1817-1891). D’altronde lo spiritualismo religioso romantico ha in Antonio Rosmini di Rovereto (1797-1855) il suo sistematore filosofico. Segni tutti che il movimento romantico era accompagnato da un’elaborazione filosofica che forniva centri precisi all’attività culturale.

La quale ebbe significativi strumenti di diffusione in alcune riviste che continuarono e svolsero la dimensione che il «Conciliatore» aveva fatta propria. Prima di tutto andrà ricordata la fiorentina «Antologia», fondata nel 1821 da un ginevrino fattosi fiorentino, Giampiero Vieusseux, che trovò l’appoggio dei toscani piú illuminati come quello di Gino Capponi. All’«Antologia» collaborarono figure interessanti, come il critico cremonese Giuseppe Montani, il Tommaseo, affiancata come fu dal gabinetto di lettura fondato pure dal Vieusseux e da altre iniziative editoriali di quest’ultimo intese soprattutto a promuovere il rinnovamento agricolo ed economico della Toscana. Non è difficile scorgere in tutto ciò l’aggancio col «Conciliatore» e piú indietro col «Caffè»: una linea che perdurerà fino al «Politecnico» di Cattaneo, di cui diremo tra poco. Ma anche in altri centri si ebbero iniziative del genere: a Napoli sorse (1832) il «Progresso» di Giuseppe Ricciardi, a Milano la «Rivista europea» (1838) di Giacinto Battaglia e in seguito «Il Crepuscolo» (1851) del Tenca, su cui torneremo; a Torino la «Rivista contemporanea» (1853) di Luigi Chiala.

Fra tante iniziative e attività si distinguono alcune figure che culturalmente, ma soprattutto politicamente e talvolta filosoficamente, ebbero grande peso. Prima di tutto quella di Giuseppe Mazzini (1805-1872), di cui è qui inutile, tanto son noti, richiamare la vicenda umana e il pensiero politico: basterà dire che, come spesso si è avuto modo di registrare, egli fu il grande ispiratore di molte idealità risorgimentali e per questa via, concretamente, di molte opere romantiche. Egli concepí, fin dal principio della sua carriera mentale, la letteratura come un ausilio, un’accompagnatrice preziosa per la maturazione e l’attuazione dei suoi ideali politici. E pertanto un settore non piccolo della sua meditazione riguarda direttamente la letteratura, oltre che una componente letteraria è sempre presente nei suoi scritti. Come scrittore egli raramente esce da un alone di eloquenza, di indeterminatezza, di slancio quasi mistico e vagamente e romanticamente “poetico”, col quale pensa sia necessario rivestire le sue idee: anche se, va aggiunto, quando la passione politica immediata prende il sopravvento sugli incerti progetti di teorizzazione, il suo parlare si fa tanto piú preciso. Ma in alcuni scritti di critica letteraria certi ideali risorgimentali-romantici, d’origine talvolta foscoliana, si fanno evidenti, come nei giovanili Dell’amor patrio di Dante e Di una letteratura europea, di ispirazione goethiana, e nei saggi su Byron e Goethe, Del romanzo in generale e anche dei «Promessi sposi», su Alcune tendenze della letteratura europea nel secolo XIX, sul Dramma storico. Ma l’opera in cui il gusto romantico, la finezza della sensibilità, l’acutezza nel penetrare gli stati d’animo, e insomma una vera disposizione critica, sono piú evidenti è il Saggio sulla filosofia della musica.

Accanto a Mazzini va collocato subito Vincenzo Gioberti, uomo politico, filosofo, critico, nato a Torino nel 1801 e morto a Parigi nel 1852, dopo una vita ricca di esperienze, anche se fertile di amarezze oltre che di fama. Per qualche aspetto il Gioberti impersona anche meglio del Mazzini alcuni motivi romantici e prima di tutto quello religioso: ché se il Mazzini sentiva in un alone un po’ generico, mistico e spirituale, egli sente, dapprima almeno, in senso precisamente e decisamente cattolico, come esaltazione della Chiesa e della sua funzione positiva nella storia italiana (di qui le idee neoguelfe). Ma anche per il motivo nazionale si può tenere simile discorso; ché quel principio di nazionalità che il Mazzini esaltava come forza politica moderna per ciascun popolo, il Gioberti circoscriveva piú chiaramente all’Italia, di cui tracciava nel 1843 la storia di tutti i tempi nel famosissimo Primato morale e civile degli italiani. Qui troviamo anche un capitolo dedicato alla letteratura italiana, che pur nella sommarietà dello schema è tuttavia un articolato disegno, utilizzato anche nel seguito della critica romantica, una fervida linea di svolgimento di tutta la nostra letteratura, dall’esplosione del genio di Dante al prevalere dell’arte in senso prezioso e raffinato nel Cinquecento, alla decadenza successiva. Ma come critico il Gioberti lasciò pagine vivide su altre figure e opere, come sul Saul dell’Alfieri, sul Leopardi, sul Manzoni e su molti scrittori di altre letterature. In seguito il Gioberti, anche in conseguenza delle delusioni politiche del ’48, si volse ad atteggiamenti piú democratici, che sono evidenti (e qui anche la sua scrittura si fa piú sobria) nel Rinnovamento politico e civile degli italiani.

Del Gioberti ricordiamo qui le opere che per il loro carattere di pubblicistica e saggistica politica ebbero un’incidenza piú immediata e diretta sullo svolgimento della cultura romantica. Ma in questo campo politico molte altre opere sarebbero da menzionare: e qui ci limiteremo a ricordare il focoso Saggio sulla rivoluzione di Carlo Pisacane (1818-1857), repubblicano, esule e cospiratore di ispirazione mazziniana, ma su posizioni poi molto democratiche: sull’altro versante, quello del moderatismo liberale monarchico, saranno da ricordare le Speranze d’Italia di Cesare Balbo (1789-1853), autore anche di una Vita di Dante, di significato ideologico piú che critico, e di un Sommario della storia d’Italia, opera anche questa di modesti intenti.

Nel campo della storia l’attività dell’età romantica fu ricca e addirittura febbrile, agendo anche qui l’eredità settecentesca risalente al Muratori, per quello che riguarda la ricerca scientifica che mette capo ad un’iniziativa benemerita per lo studio della storia patria come l’«Archivio storico italiano», ma anche un gusto autentico per una traduzione in narrazione vasta, articolata, scientificamente appoggiata, delle ricerche particolari. E questa dimensione sarà già riconoscibile in parte nella Storia della lega lombarda, nonché nella Storia di Bonifacio VIII, del napoletano Luigi Tosti (1811-1897).

Ma è soprattutto nel palermitano Michele Amari (1806-1889) che il Romanticismo ebbe il suo storico, attento ricercatore e narratore vivacissimo. La sua Guerra del Vespro (1842) è tutta sostenuta da un’autentica attitudine storica, oltre che da una forte passione politica: ma poi la Storia dei Musulmani di Sicilia (1854-1872) appare come il vero capolavoro storico del Romanticismo.

Se l’Ottocento può annoverare tanti altri storici, soprattutto di avvenimenti contemporanei, dal Capponi, il cui nome è spesso ricorso in queste pagine e che fu certamente un simbolo della classe colta italiana del secolo, autore fra l’altro di una Storia della repubblica di Firenze (1872), a Giuseppe La Farina, autore di un’appassionata Storia d’Italia dal 1815 al 1850, a Giuseppe Ferrari, scrittore in italiano e in francese di molte opere storiche e politiche (Histoire des révolutions d’Italie, Filosofia della rivoluzione), il solo che per statura li sovrasta e si approssima alle grandi figure dell’età fu Carlo Cattaneo, milanese, nato nel 1801 e morto nel 1869.

Fare brevemente la storia di quest’intellettuale e politico, economista, storico, educatore, è impossibile: tanto piú quando s’aggiunga che egli fu vivacissimo scrittore. Il suo stile fu sobrio, lucidissimo, singolarmente incisivo, quello che di piú antiromantico si possa immaginare se si pensa al Romanticismo dei poeti pratiani o all’eloquenza di Mazzini, ma il prodotto piú autentico del Romanticismo se si pensa alle origini vichiane di quest’ultimo. Nel Cattaneo lo stile è regolato dal bisogno di concretezza, di far chiaro sui problemi agitati e studiati, ben conscio che sta nella capacità dello scrittore di mescere dati certi e rilievi fantastici la sua riuscita, il suo successo. Questa sua disposizione alla concretezza dello stile è la conseguenza della sua mente naturalmente disposta al concreto, al reale, antispiritualistica, antiidealistica, positiva (tanto che s’è visto in lui un iniziatore del positivismo, mentre piú veramente occorrerà vedere in lui l’erede del vichianesimo per un lato e poi dell’illuminismo, magari attraverso l’influenza del suo maestro Romagnosi).

Si pensi a certe sue definizioni che da sole possono testimoniare della singolare unità – da grande scrittore – di pensiero e stile in lui: «Un sistema compiuto e chiuso diviene il sepolcro dell’intelligenza e della virtú che lo ha tessuto»; «La filosofia è la ragione dell’uomo che aspira a conoscere la ragione dell’universo»; «L’atto piú sociale degli uomini è il pensiero, poiché congiunge sovente in un’idea molte genti fra loro ignote e molte generazioni»; «Val piú il dubbio d’un filosofo che tutta la morta dottrina d’un mandarino e d’un frate». E si potrebbe continuare per molte pagine. Ma varrà invece la pena di tracciare la storia, almeno esterna, di questa figura unica.

Giovanissimo si dedicò all’insegnamento, pur frequentando assiduamente il Romagnosi, ai cui «Annali di statistica» collaborò attivamente con scritti soprattutto giuridico-economici. Nel ’39 fondò il «Politecnico», che nella sua prima serie durò fino al ’44: era un tipo di giornalismo nuovo ch’egli proponeva, aperto su tutti gli aspetti della vita, capace di mischiare critica letteraria, per esempio, alla «scabra merce di locomotive e gazometri, e ponti obliqui», aperto soprattutto su una prospettiva non angustamente italiana, ma europea e mondiale, pronta nel proporre all’Italia soluzioni economiche e tecniche delle piú diverse parti del mondo e viceversa; un giornalismo che fornisse idee concrete, che avesse presa sul reale per rampollarne direttamente, che potesse corrispondere alle aspettazioni di nuove classi, di un generale movimento della società. Gli articoli ch’egli pubblica nel «Politecnico», sia ora, sia nella breve ripresa dopo il ’60, sono innumerevoli e sugli argomenti piú vari: letterariamente basterà ricordare il saggio sul Don Carlos di Schiller e il Filippo dell’Alfieri per valutare la capacità del critico, che mostra la diversa grandezza della tragedia alfieriana al di là di quegli elementi (colore storico, rispondenza dei personaggi con la storia) che per i romantici son divenuti nuovi pregiudizi; o, ancora, su altro piano i saggi su Vico e sul Foscolo. Il principio che lo guida è che nel tessuto storico i dati da collegare, i nessi da registrare, le connessure da mettere in evidenza sono infiniti: per il vero storico non si può prescindere da questa visione complessa, articolata, ma non sfumata, bensí chiara, circoscritta in ogni particolare.

È quello che appare chiaramente non solo nei Frammenti di filosofia naturale e nei Frammenti di filosofia civile, ma soprattutto in quello che può essere considerato un capolavoro di concezione storica e di efficacia anche letteraria, le Notizie naturali e civili sulla Lombardia. V’è qui un grandioso quadro di storia geologica che dà poi luogo ad una descrizione geografica circoscritta e precisata in tutti i suoi elementi: fiumi, valli, rilievi, abitanti quindi. Tutto perché dall’insieme di quei fatti scaturisca l’illuminazione della situazione dell’agricoltura lombarda. Fanno seguito le vicende del popolamento, degli insediamenti dei diversi popoli sulla terra lombarda: e anche qui si trova un continuo passare dal particolare al generale, una ferma disposizione a tendere, a colorare una situazione.

Ma non meno efficace il Cattaneo risulta in altre opere, come nella Storia della rivoluzione milanese del ’48, scritta dapprima in francese. Nel tempo di quegli avvenimenti, fin dalle cinque giornate, il Cattaneo fece parte del Comitato di guerra e volle che la rivoluzione fosse rivoluzione di popolo che contro l’Austria si levava per una confluenza storica e sociale di interessi concreti, di idealità precise. Di tutto questo c’è la trama lucida, precisa in questa storia, come anche nelle successive Considerazioni; e v’è anche il maturarsi di quel pensiero federalista-repubblicano che divenne il centro dei suoi pensieri. Dopo il ’49 fu costretto all’esilio, si rifugiò a Lugano e in quel liceo insegnò fino al ’60. Fu eletto poi deputato, ma per non giurare alla monarchia rifiutò per tre volte l’elezione. Anche questo segno di una dirittura morale che è ben connessa con la sua dirittura intellettuale.

11. La critica letteraria dal Foscolo al De Sanctis

Come si è potuto avvertire piú volte nel corso delle pagine precedenti, la critica letteraria fu largamente praticata, fu anzi uno strumento tipico di espressione del Romanticismo. Criteri conduttori di questo particolare esercizio letterario, in rapporto soprattutto alle esigenze di realismo fermentanti al fondo del Romanticismo, furono la rispondenza della letteratura con la società, il parallelismo tra storia civile e storia letteraria. Ma non fu tutto qui: la ricerca dello svolgimento storico, come anche quella del fatto artistico nella sua peculiarità, guidarono, o almeno sollecitarono, quest’attività. Spirito animatore fu certo il Foscolo, del cui peso come critico su tutta la civiltà romantica s’è detto (v. p. 159).

Su questa linea si svolse un’attività fervida, spesso rivolta alla letteratura contemporanea, e già si son fatti i nomi di politici e di filosofi, ma anche di poeti e scrittori, che sono rilevanti anche per il contributo alla critica che hanno recato: cosí Mazzini, Gioberti poco sopra, cosí anche i letterati della polemica romantica, il Tommaseo, il Carrer e altri.

Qui ricorderemo innanzi tutto una singolare figura di critico, il bresciano Giovita Scalvini (1791-1843), che si occupò di Foscolo, di Manzoni, di Goethe (ne tradusse anche il Faust) con una sicurezza di giudizio, ma soprattutto con una rete di suggestioni davvero singolari. Un’altra figura, di sopra appena nominata eppure oggi tra le meglio segnalabili per questo aspetto nell’ambiente del Vieusseux, fu Giuseppe Montani, cremonese (morto nel 1833), pensoso e sensibile critico della prosa leopardiana, per esempio, oltre che del Manzoni. Altra figura che giunge al culmine del Romanticismo con tutto un maturato bagaglio di interessi fu il milanese Carlo Tenca (1816-1883), che nel ’51 fondò «Il Crepuscolo», rispondendo ad un’esigenza profondamente sentita ed esercitandosi su quell’organo in saggi, specie sugli scrittori contemporanei, capaci di volgere il suo precipuo interesse storico-sociale a valutazioni estetiche profonde, intelligentemente motivate.

Un’esigenza profondamente viva nel Romanticismo fu la storia della letteratura: molti i tentativi, vari i risultati. Tra i piú fermi s’è già segnalato il disegno storico-letterario di Gioberti nel Primato, nonché quel potente, a suo modo, e comunque vivace quadro storico che sono le Lezioni di letteratura italiana di Settembrini. Vanno ancora ricordati Camillo Ugoni, amico e discepolo del Foscolo, che continuò con vivace spirito romantico una pedissequa Storia della letteratura italiana condotta dal Corniani fino al Settecento, Cesare Cantú, che diede nel 1865 una sua Storia della letteratura italiana, che, per quanto ottusa esteticamente e anche storicamente, resta un documento di modi di intendere le cose, storia e arte, chiaramente moralistico, che fu proprio di certo Romanticismo cattolico, e soprattutto Paolo Emiliani Giudici, che tra il 1844 e il ’55 scrisse una Storia delle belle lettere in Italia, la quale, per quanto carente di concetti precisi sull’arte, la forma, la storia letteraria, per quanto carente anche circa la valutazione e la stessa formazione del giudizio estetico, resta la piú ferma, utile, unitaria storia letteraria che il Romanticismo ci abbia dato prima di quella, tanto piú alta e compatta, come si vedrà di seguito, di Francesco De Sanctis.

12. La critica letteraria di Francesco De Sanctis

Al culmine della tensione critica e storiografica del romanticismo spicca la grande figura di Francesco De Sanctis, il maggior critico e storico letterario che l’Italia abbia avuto, cosí complesso e ricco di problemi e istanze fondamentali che – malgrado periodi di forte dissenso e addirittura di misconoscimento della sua grandezza – alla sua alta lezione si sono rifatti variamente tanti dei maggiori critici successivi, trovando nella sua opera e nella sua metodologia un eccezionale appoggio soprattutto nella lotta contro ogni nuova specie di prezioso formalismo o di arido contenutismo, di considerazione astorica delle opere poetiche. A lui si lega insomma la storia successiva della nostra critica e della nostra storiografia letteraria, cosí come in lui si fondevano le esigenze della critica romantica e le premesse geniali del Foscolo critico.

A tale formidabile esemplarità e forza critica e storica furono essenziali la vastità della sua esperienza di studioso aperto alla problematica della critica europea, specie francese e tedesca, la profondità della sua lunga discussione ed elaborazione metodologica, ma anche la forza viva di una personalità geniale rafforzata dalla piú generale esperienza di una vita morale e politica esercitata senza risparmio nell’eccezionale periodo che va dai moti risorgimentali all’unità e alla formazione del nuovo stato nazionale italiano. Sicché la critica e la storiografia letteraria desanctisiana, avvalorata dalla originalità di un grande scrittore, non furono frutto solo di una grande attività intellettuale e di un gusto originalissimo e profondamente intonato allo spirito piú profondo del suo tempo, ma anche di una singolare forza morale e di un’eccezionale interezza di esperienza vissuta come uomo impegnato nelle vicende e nei problemi generali della sua epoca. E certo i veri critici difficilmente sono dei puri studiosi e specialisti chiusi nell’ambito delle loro ricerche e privi di vita e di impegni morali, politici, sociali, incapaci di vivere realmente i problemi che sono al centro delle grandi opere poetiche da loro studiate. Che era poi quanto già affermava il Foscolo, nemico di una critica e di una storiografia nate nel chiuso delle accademie e assertore della necessaria integralità del critico-uomo, cosí come di quella del poeta-uomo.

Nato a Morra Irpina (in provincia di Avellino) il 28 maggio del 1817, in una famiglia di piccoli possidenti, il De Sanctis fu condotto giovanissimo a Napoli e presto (come ci narra egli stesso nel suo bellissimo scritto autobiografico, La giovinezza) passò dalle prime ingenue e incerte letture e da un’educazione piú grammaticale e classicistica impartitagli dallo zio Carlo, insegnante privato, allo studio piú disciplinato, in parte angusto, ma per altro importante nella sua formazione, della scuola del purista marchese Basilio Puoti, da cui il giovanetto apprese, insieme a sentimenti di viva italianità, un gusto di lettura attento anche se troppo fondato sugli aspetti di «purezza» della lingua e sugli esempi degli scrittori del Trecento e del Cinquecento. Ma già nel 1839 diveniva egli stesso insegnante, prima nella scuola di S. Giovanni a Carbonara, poi nel collegio militare della Nunziatella, mentre insieme apriva una sua scuola privata (lo «studio del vico Bisi»), in cui tenne corsi sempre piú approfonditi e nuovi di stilistica e di storia della letteratura, congiungendo cosí strettamente gli interessi letterari a quelli patriottici e politici, tanto che egli prese parte attiva ai moti napoletani del ’48 insieme a molti dei suoi scolari, uno dei quali, Luigi La Vista, morí combattendo contro i mercenari svizzeri del Borbone.

Lo stesso De Sanctis, dopo un soggiorno in Calabria, venne imprigionato nel ’50 per le sue idee e la sua attività liberale e rimase nel tetro carcere del Castel dell’Ovo fino al ’53 (e fu un periodo di intense meditazioni filosofiche ed estetiche), quando poté andare in esilio prima a Torino, poi a Zurigo, dove rimase come professore di italiano al Politecnico sino al 1859.

Rientrato in patria svolse una fervida attività politica e culturale: riformò l’Università di Napoli in senso decisamente moderno, laico e liberale, per poi ricoprire nel ’61-62 la carica di Ministro della Pubblica Istruzione del nuovo regno italiano, cosí come fu ministro dello stesso dicastero nel ’78-79, quando dal partito cavouriano e dalla destra storica egli era passato, con un approfondimento ben coerente dei suoi ideali liberaldemocratici, alla sinistra moderata.

E mentre come deputato egli svolse attività importanti anche nella difesa degli interessi meridionali, in questi stessi anni di cosí fervida vita politica il De Sanctis fu anche professore di letteratura italiana nell’Università di Napoli, accompagnando sempre l’attività didattica e politica con un intenso lavoro di critico e con importanti interventi nei problemi della letteratura militante e della cultura fra romanticismo e positivismo. Morí il 19 dicembre del 1883, mentre attendeva alla stesura del suo libro sul Leopardi e del frammento autobiografico, già ricordato, La giovinezza, importante documento delle sue qualità di scrittore anche in forma di narrazione libera, ariosa, insaporita di modi dialettali, e delle sue alte qualità umane, della sua forte passione morale, della sua schiettezza e purezza di carattere (nonché del suo vivo interesse per i problemi concreti e civili, specie nei confronti della sua terra meridionale da lui tanto amata e profondamente conosciuta nelle sue risorse generose e nella sua storia di miseria e di abbandono), tante volte confermate in molte delle sue bellissime lettere ad amici e ad allievi.

Dalla esposizione rapida delle sue vicende vitali è già possibile rilevare la pienezza di vita e di impegni del De Sanctis, uomo di pensiero e di azione, come dagli ultimi accenni alla Giovinezza e all’epistolario (né dovrebbe trascurarsi almeno l’indicazione della narrazione gustosa e appassionata di un «viaggio elettorale» nello scritto omonimo) ben si può risalire alla sicura affermazione della sua qualità di grande scrittore.

Ma certo per noi tutto quanto abbiamo detto dell’uomo e dello scrittore confluisce nella sua centrale grandezza di critico e di storico letterario.

Il De Sanctis già nel giovanile periodo napoletano venne elaborando, sulla base delle sue esperienze di lettore di testi letterari e di opere di critica e di estetica italiana, francese e tedesca (al centro è la conoscenza sempre piú approfondita dell’estetica e della filosofia di Hegel), una sua prospettiva critica che tendeva a superare sia la storiografia letteraria erudita, sia la considerazione puramente psicologica e contenutistica dell’opera d’arte, sia quella prevalentemente retorica e stilistica del purismo, sia infine quella stessa – pur cosí per lui importante – dello storicismo idealistico hegeliano nella sua astrattezza simbolica (l’opera d’arte come espressione simbolica di idee) e nella sua tesi della necessaria morte dell’arte di fronte al prevalere della filosofia e della riflessione nell’epoca moderna.

Attraverso un lungo e complesso travaglio di pensiero e di gusto il grande critico irpino venne sempre meglio configurando una sua idea dell’arte nella sua individuale e storica realtà espressiva concretamente attuata nelle singole opere poetiche nate non da un’elaborazione formale di un’idea astratta, ma dall’espressione necessaria e coerente da parte dello scrittore di una situazione concreta (non di un concetto astratto) che richiede un linguaggio adeguato (piú «proprio» che «puro»), una forma coerente rampollante dal pieno della «situazione» che il poeta vive in sé e rappresenta compiutamente.

Cosí, in questa prospettiva di romantico realista (avverso all’astrattezza di una letteratura puramente simbolica e filosofica o puramente retorica o puramente sentimentale e strenuamente in lotta con la fantasticheria velleitaria e con il sentimentalismo morboso del basso romanticismo, teso da un forte amore per un reale in cui l’ideale si risolve e vive concretamente), il De Sanctis risolveva il vecchio contrasto fra contenuto e forma astrattamente intesi e contrapposti, sostenendo che contenuto e forma sono inseparabili e che la vera poesia consiste nella loro organica unità, nel loro coerente sviluppo di contenuto in forma: la forma, infatti, «non è qualcosa che stia da sé e diversa dal contenuto, quasi ornamento e veste o apparenza o aggiunta di esso, anzi essa è generata dal contenuto, attivo nella mente dell’artista: tal contenuto, tal forma».

Per giungere a tale punto di vista estetico il De Sanctis, che fu sempre e sempre meglio non un teorico separato dal critico e viceversa, ma un critico e metodologo unitario, avvalorato dal continuo ricambio fra riflessioni estetiche ed esperienze critiche, si serví, come dicevamo, insieme delle sue letture della poesia contemporanea e passata e delle opere di estetica e insieme venne concretamente attuando le sue idee e il suo gusto di romantico realista in una lunga e abbondante produzione critica che, dopo le lezioni giovanili napoletane, si svolse piú maturamente negli anni dell’esilio e del ritorno in patria, sia nella forma di saggi su giornali e riviste (raccolti poi nei volumi dei Saggi critici e dei Nuovi saggi critici), sia nella forma di piú complete monografie che si avvalevano spesso di una precedente elaborazione in forma di lezioni tenute al Politecnico di Zurigo e poi all’Università di Napoli.

Una prima fase della maturità del critico è rappresentata dai saggi raccolti nel volume dei Saggi critici, che rappresentano insieme una diretta interpretazione di autori e opere e una battaglia contro le forme della critica che il De Sanctis considerava errata e a favore dei suoi ideali critici, morali, storici, come avviene anche nella monografia sul Petrarca (pubblicata nel 1869), in cui attraverso l’interpretazione del poeta trecentesco il critico fa insieme una diagnosi severa di una letteratura separata dalla vita e dalla realtà, della malattia, acuitasi nel romanticismo, di un eccessivo e unilaterale predominio dell’ideale a scapito del reale.

Poi, mentre alacremente nascono i «nuovi» saggi critici (raccolti e pubblicati in volume nel 1872), tanto piú densi e decisivi nell’interpretazione o di singoli canti danteschi (i celebri saggi sul canto di Francesca o su quello di Farinata) o di intere personalità e mondi poetici (il saggio sull’Uomo del Guicciardini o quello sul Mondo epico-lirico di Alessandro Manzoni), il De Sanctis si volge a realizzare quello che rimane il suo capolavoro piú intero, la Storia della letteratura italiana, scritta fra il 1869 e il 1871.

In questo libro unitario e organico tutte le qualità piú originali del De Sanctis, critico, storico, moralista etico-politico si fondono mirabilmente. Infatti la Storia della letteratura italiana è certo la storia della letteratura italiana dalle sue origini all’epoca ottocentesca, ma è insieme la storia del popolo italiano nel suo alternarsi di periodi di grandezza e di decadenza, nel suo lungo e difficile cammino verso la coscienza e l’unità nazionale, nella sua intima lotta fra tendenze perniciose di egoismo privato, di ipocrisia, di ozio morale e intellettuale, di abbandono al sogno e all’arcadica e accademica evasione dalla realtà, e tendenze di vigorosa moralità, di impegno fattivo, di concretezza realistica pari all’altezza degli ideali. E in questa complessa e unica storia prendono spicco e rilievo le grandi personalità poetiche-intellettuali, mai però isolate in se stesse, ma continuamente collegate allo spirito del loro tempo, alle curve e alle pieghe dello svolgimento storico nazionale, di cui esse esprimono nelle loro opere i momenti e le tendenze. Sicché questa grandiosa opera, cosí ricca di quadri storico-letterari profondi e incisivi (anche se a volte forzati da un giudizio moralistico e risorgimentale che può svalutare eccessivamente, di fronte ad un giudizio piú comprensivo, grandi epoche, come il Cinquecento, troppo condannate e livellate a causa della loro decadenza politica e della loro particolare moralità diversa da quella risorgimentale del De Sanctis), cosí fertile di singole e finissime interpretazioni di autori e di opere, viene a costituire insieme anche un grandioso bilancio del passato italiano, un severo giudizio sui mali e pericoli del popolo italiano, in vista di un nuovo impegno della nuova nazione nel presente e nel futuro.

Proprio in rapporto a questa forte passione del De Sanctis per il presente (sicché egli fu sempre critico militante anche quando studiava il passato, mai isolandolo dai doveri e dalle prospettive attuali, ma cercando in esso lezioni e prese di coscienza valide appunto per il presente), il grande critico e storico si applicò, dopo aver terminato la Storia della letteratura italiana, ad una piú approfondita e minuta ricostruzione e giudizio della storia della letteratura italiana nel secolo diciannovesimo, cui dedicò vari corsi delle sue lezioni all’Università di Napoli, raccolti e pubblicati dopo la sua morte col titolo appunto di Letteratura italiana nel secolo XIX: la scuola liberale, la scuola democratica, e ancor piú fortemente dominati da una vigorosissima interpretazione della letteratura risorgimentale basata sulle varie tendenze politiche delle sue direzioni letterarie e non perciò incapace di giungere a giudizi di pieno valore estetico-critico.

E del resto, se qualche rischio di eccesso sociologico (la letteratura come espressione della società), di rigido incasellamento di certi scrittori nell’una e nell’altra delle «scuole»,in cui il De Sanctis divideva la letteratura ottocentesca può esser rilevato in quelle lezioni (ma ben tenendo conto sempre del fatto che anche gli eccessi nascono da una direzione sostanzialmente feconda e giusta), le successive lezioni napoletane (raccolte e riscritte dallo stesso De Sanctis in un’apposita monografia nell’ultimo suo anno di vita, purtroppo perciò rimasta interrotta) dedicate al Leopardi possono ben dimostrare come il De Sanctis fosse ben capace di puntare anche piú direttamente su di una grande personalità poetica riassorbendo nella ricostruzione di quella e del suo sviluppo la storia del suo tempo, mentre, d’altra parte, in quella stessa monografia leopardiana vivevano le esigenze del gusto romantico-realista desanctisiano, della sua avversione per una letteratura priva del senso della realtà, se egli finiva, anche eccessivamente, per rilevare nelle poesie leopardiane mature un forte sapore realistico, una singolare forza di concretezza nel paesaggio e nel linguaggio dei «grandi idilli» leopardiani.

Questo gusto del reale e del concreto può anche finire per costituire un limite della critica desanctisiana quando esso, accompagnandosi all’avversione per ogni forma di poesia intellettualistica, simbolica, porta il De Sanctis a certe incomprensioni anche gravi, come nel caso della poesia dantesca è l’eccessiva preferenza per l’Inferno, piú corposo e realistico, a scapito del Paradiso, con la sua altissima poesia che il critico meno sentiva a causa della presenza piú forte in essa della teologia e di una specie di visione soprasensibile, meno concretata in personaggi drammatici e in paesaggi realistici.

E come avviene nella stessa grande monografia sul Leopardi, troppo costruita sul contrasto fra cuore e intelletto: il primo promotore di poesia, il secondo di prosa troppo intellettualistica e arida, donde la limitazione del valore poetico delle Operette morali.

Ma, d’altra parte, questo limite era legato ad una direzione centrale del gusto e della critica desanctisiana, che permetteva al De Sanctis tante feconde intuizioni e lo legava a una tendenza profonda della storia della letteratura e della cultura nel suo svincolarsi dai pericoli del romanticismo piú sognante o creatore di simboli astratti, nel suo rivolgersi alla realtà come fondamentale fonte di vera poesia e di veri problemi, come terreno di prova di ogni pensiero e atteggiamento morale.

Sicché nell’ultimo periodo della sua attività si deve proprio insistere particolarmente sullo sviluppo della tendenza realistica del De Sanctis e sull’incontro di questa con le nuove correnti europee del naturalismo (specie nelle forme del romanzo del francese Zola) e con le piú generali istanze della cultura e della scienza positivistica. Il De Sanctis sentí una forte attrazione per questi nuovi orientamenti culturali e letterari in quel che avevano di piú accentuatamente realistico, nella loro lotta contro un idealismo fiacco e morboso, nella loro spinta verso il reale, a lui cosí caro, nella loro generale tensione ad un’arte viva ed espressione concreta della realtà dell’uomo e della sua storia. Ma insieme (come dimostrano i vari saggi dedicati allo Zola e ai suoi romanzi) egli, realista ma profondamente convinto della necessità di ideali saldi e alti, concreti e sani, combatté quelli che gli parvero gli eccessi delle nuove correnti, quasi riduzione dell’uomo alla sua brutale condizione animale e materiale e riduzione dell’arte a rappresentazione scientifica e fotografica, priva di ogni lievito ideale. Reale e ideale dovevano per lui fondersi concretamente nella vita e nell’arte. Egli chiedeva (come fece esplicitamente in una postilla dell’83 ad una nuova edizione del suo saggio sul Petrarca) opere vive («fatemi cose vive e battezzatele come volete»!), non semplici applicazioni di sistemi letterari e scientifici, e non voleva né che (com’era avvenuto nel romanticismo piú sognatore e sentimentale) l’ideale uccidesse il reale, né che il reale uccidesse l’ideale.

Tale fusione di reale e di ideale, tale vita dell’ideale nel reale era l’ultimo messaggio etico e letterario del grande critico e ben si può capire come egli in tal modo sostenesse una via centrale e fondamentale sia per l’arte sia per la critica successiva, cosí come avveniva con il suo piú maturo metodo storico-critico che voleva studiare gli autori e le opere d’arte mai isolati, sempre nel senso della storia, senza però con ciò dissolverne le peculiari e originali qualità e farne dei semplici prestanomi di idee generali e di momenti storici non bisognosi di loro.